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LA POLITICA HA TROVATO UN DIO: LA GOVERNABILITÀ ECCO PERCHÉ È MORTA

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Prese dalle smania di competere per il potere, le forze politiche si sono trasformate in gruppi di ceti dirigenti lontani dalla volontà popolare e asserviti agli interessi del sistema; così il cambiamento è divenuto utopia

Fausto Bertinotti

Dietro questa crisi ci sono molte responsabilità della sinistra. Smarrito il protagonismo sociale degli ultimi e la vocazione a un mutamento della società. la politica si è trasformata nella sua caricatura: il potere per il potere.
La campagna elettorale è appena cominciata e già dovrebbe ricominciare da capo. È accaduto di tutto e non è successo nulla di promettente. Sotto il cielo il disordine è stato totale, ma la situazione politica è disperata. Non è questione degli errori di questo o di quello. Qui la catastrofe è annunciata per la morte della politica, che nelle emergenze viene sostituita da una soluzione tecnico-oligarchica. La politica da signora diventa serva, tutti i protagonisti sono travolti dalla mancanza di densità della politica, di rapporto tra la politica e il popolo. Il Paese ufficiale si è separato dal Paese reale. La politica si è consegnata al suo sepolcro: la governabilità.
La campagna elettorale è appena cominciata e già dovrebbe ricominciare da capo. È accaduto di tutto e non è successo nulla di promettente. Sotto il cielo il disordine è stato totale, ma la situazione politica è disperata. Le destre proseguono il loro pessimo cammino che pretende una ulteriore radicalizzazione delle disuguaglianze, una sistematica discriminazione nei confronti delle diversità, un regime di sorveglianza e punizione senza che esso sia contrastato da una mobilitazione nella società in direzione contraria e su opposti obiettivi. Il centro si raddoppia dopo aver spostato ancora a destra il centrosinistra esistente, imponendo al Pd un accordo programmatico rivelatore della sua collocazione politica di fondo. Il quadro complessivo della politica è così devastato che anche quando, come un fungo, esce una proposta di contenuto in sé interessante, che potrebbe costituire l’occasione per una larga iniziativa sociale e politica – penso a quella avanzata da Conte della riduzione dell’orario di lavoro a 36 ore – essa viene assorbita come qualsiasi altra nel tritacarne elettorale. La cornice generale è sconfortante. La prigione atlantista e le culture e la politica di guerra vengono confermate, mentre nel mondo essa si espande in modo inquietante da est al medio-oriente. La superficie della politica, la sua dimensione orizzontale, cioè il rapporto tra le forze politiche e all’interno di esse risulta inutilmente mosso. Più che commentato, esso andrebbe resettato almeno nella sua analisi, per poter passare all’ordine del giorno, a quel che vive nella realtà, nella devastante crisi sociale, nella società civile. La separazione tra la politica, come si manifesta nella campagna elettorale, e la realtà, il Paese reale, si è fatta ancor più radicale. Il fossato che le divide, già profondo, si è allargato fino a costituire un confine tra due mondi incomunicabili. La disaffezione è cresciuta ancora, tanto che si può dire che la chiave prevalente delle prossime elezioni sarà il non voto.
Si dovrebbe poter incominciare da capo, come dopo una falsa partenza. In ogni caso gli attuali contendenti resterebbero incorreggibili. Non resta allora che farsi ispirare, nella critica come nel fare, dallo spirito di scissione tanto è evidente la catastrofe della politica. Non è questione degli errori di questo o di quello che pure ci sono. Qui la catastrofe è annunciata per la morte della politica, che nelle emergenze viene sostituita da una soluzione tecnico-oligarchica. La politica da signora diventa serva, tutti i protagonisti sono travolti dalla mancanza di densità della politica, di rapporto tra la politica e il popolo. Si è determinata una separazione tra i ceti dirigenti e il popolo, la politica galleggia nei ceti dirigenti. Ciò che per questa non-politica è significativo è la relazione tra di loro, ma il Paese ufficiale si è separato dal Paese reale. In questo galleggiamento, le alleanze non sono il risultato di una ricerca di convergenze programmatiche, ma solo per prendere il governo, solo per vincere. I singoli comportamenti in questa fase interessano solo il ceto politico. Uscendo da questa cerchia, il grosso della popolazione è disinteressato a ciò che accade e può perciò gonfiare l’aria del non voto, della protesta disarmata. Del resto la politica attuale è solo una dipendenza. Basti pensare da una parte all’alternativa tra pace e guerra e dall’altra a quella tra diversi modelli economico-sociali, di rapporto tra le classi e tra le persone e lo Stato.
Si potrebbe partire nel conflitto sovraordinatore tra pace e guerra dalla collocazione internazionale del Paese e dell’Europa. L’Italia, dalla fine della guerra, ha discusso a fondo il tema delle alleanze atlantiche e, anche quando si è accettata l’adesione alla Nato, le tendenze sia del mondo socialista-comunista sia di quello cattolico in politica hanno mescolato delle istanze pacifiste e neutraliste. La solidarietà con il popolo palestinese o alla vicenda della guerra del Vietnam sono solo due esempi. Oggi invece questa discussione è cancellata. Senza colpo ferire, con Draghi, siamo diventati dei gendarmi dell’alleanza atlantica e siamo entrati nel partito della guerra malgrado qualsiasi sondaggio dica che la maggiola ranza del popolo italiano è contro l’invio delle armi all’Ucraina.
Il popolo non ha voce. La costante è la stessa: la politica è morta, sostituita da un meccanismo di comando che discende direttamente da quelli che vengono considerati gli interessi del sistema. Il popolo è una variabile dipendente, non è una realtà complessa o il fondamento della democrazia: è una variabile dipendente dalle scelte dominanti. Il popolo è come l’intendenza di De Gaulle, seguirà. Finché non si rivolterà e lì inizierà un’altra storia. I governi europei, e in particolare le esperienze italiane, con questa curvatura tecnico-oligarchica, sono stati loro il perno del sistema, non il Parlamento, i partiti o la società civile. Sono i governi a scegliere le maggioranze, è un paradosso. È il governo che dall’alto sceglie di volta in volta le compagini con cui esistere. E quando la politica non ce la fa più, si va verso una soluzione tecnico-oligarchica: una catastrofe. Sarebbe necessaria una rivolta politica-morale.
In questa crisi della politica, tanta parte è crisi della sinistra. La sinistra è stata nella sua storia portatrice di un rapporto particolare con il mondo del lavoro e ha avuto un’idea della politica come idea di costruire un’alternativa della società. Questa pulsione ha alimentato tutta la politica, o per contrastarla o per cercare un compromesso dinamico o ancora per confrontarsi in una sfida per l’egemonia. Il tutto era animato da questi due elementi: un protagonismo sociale degli ultimi e la vocazione di un cambiamento della società. Senza questo stimolo, la politica si chiude nella sua caricatura: la governabilità. Non c’è più, è solo una competizione per andare al governo. Una competizione tra chi è più capace di garantire la governabilità.
Non è detto che debba andare così. La Francia lo ha confermato da quando il conflitto sociale e politico vi ha fatto irruzione ed è nata una nuova soggettività della sinistra. Intanto converrà farci guidare, in ogni frangente, dallo spirito di scissione.

Fonte: Il Riformista