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La politica (fiscale e non solo) nella morsa di “Grandi Riformatori” e “Legislatori Faccendieri”

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di Francesco Pepe*

Volendo semplificare brutalmente, sono due i modi di fare politica e di legiferare in materia fiscale (e non solo) che da tempo contraddistinguono la politica italiana e nei quali questa sembra incastrata. Due modi tra loro opposti, eppur legati “a doppio filo”, ed entrambi criticabili.

Da una parte, abbiamo la politica del “Grande Riformatore”. A memoria di chi scrive, in Italia c’è sempre una Riforma urgente da attuare, che sia quella del fisco, della pubblica amministrazione, della giustizia, della sanità, della scuole e dell’università, finanche della Costituzione. Quando una realtà pubblica, istituzionale o sociale, la percepiamo non funzionare, quando ne siamo scontenti, allora parte della politica e dell’opinione pubblica inizia ad immaginare e proporre un futuro diverso, un reset legislativo che – quasi l’ordinamento fosse un telefonino – possa finalmente riavviare il nostro “sistema” politico, sociale o economico, rendendolo nuovamente efficiente ed equo. Si vagheggiano così “cieli nuovi e terre nuove”, e lo si fa spesso scimmiottando quanto accade altrove all’estero, ovviamente senza la benché minima considerazione delle profonde diversità di contesto. Pensiamo proprio alla materia fiscale: chi non ha mai sentito proporre dal politico o dal giornalista d’inchiesta di turno – ad esempio – un fisco “come quello inglese” (dove leggi la dichiarazione e sai esattamente quello che paghi!); o “come quello tedesco” (dove c’è la progressività “lineare”, quindi – quasi fosse un dogma di fede – un fisco più “equo”!); o “come quello francese” (dove c’è il “quoziente familiare” e se hai figli non paghi praticamente nulla!); o, last but not least, “come quello americano” (dove lì sì che gli evasori li catturano… Al Capone docet!). Chi – ciclicamente – non è mai incappato nella proposta de “la Patrimoniale” (con la P maiuscola), quale cura definitiva di ogni diseguaglianza? (Che poi già abbiamo, ma in tanti pezzettini… IMU, IVIE, bollo sui conti correnti, IVAFE, bollo auto…)

È che al “Grande Riformatore” piace sognare e, soprattutto, far sognare gli elettori. Il problema è che il sogno si infrange quando la Grande Idea di Riforma deve poi confrontarsi con la realtà della regolazione sociale. Sì, perché all’atto pratico ci si scontra – in ordine sparso… – con i vincoli di copertura finanziaria (e lì Robin Hood te lo scordi… il gettito si fa con i grandi numeri ed anche se tassi di più “i ricchi”, questo non è sufficiente a tassare di meno “i poveri”, perché i primi sono pochissimi e i secondi molti molti di più… e i conti non pareggiano mai!); con la necessità di provvedimenti attuativi (perché la legge non può, non deve e comunque non riesce mai regolare tutto e va implementata anche dopo aver chiuso la conferenza stampa…); con la limitatezza delle “forze” amministrative disponibili e con la complessità dei processi burocratici da gestire, perché la “politica” (l’arte di scegliere tra varie ipotesi di governo della società) non si accompagna di per sé al “potere” (la forza di rendere “effettive” le scelte della politica). Per rendere concreta la volontà (astratta) della legge servono infatti mezzi e persone, servono risorse, serve attivare i processi burocratici, servono capacità gestionali anche individuali, serve competenza, serve discrezionalità e responsabilità (e non legalismo).

Di tutto questo spesso il “Grande Riformatore” non sempre ha contezza o (peggio) non se ne interessa, e le sue “Grandi Riforme”, anche quando approvate dalle assemblee parlamentari, finiscono in larga parte per restare macchie di inchiostro nelle Gazzette Ufficiali, cambiano poco o niente la società (la povertà è stata abolita, vero?), a ridursi a “leggi manifesto”, fatte – alla fin fine – solo per poter dire appunto di “averle fatte”! (la web-tax “italica” la ricordiamo?).

È quando si prende coscienza di ciò, quando alla il-lusione segue la de-lusione, che si innesca – quasi “di rimbalzo” – una dinamica esattamente opposta. Se il “Grande Riformatore” non riesce a cambiare il mondo, allora ci si rassegna al pragmatismo politico di bassa lega, al “Legislatore Faccendiere”, erogatore di mini- o micro-interventi, di aggiustamenti e modifiche dell’esistente per banali esigenze di bilancio e/o per soddisfare i bisogni dei più disparati clientes del momento, clientes a volte del tutto occasionali, ascoltati per una contingente amplificazione dei media legata a casi di cronaca (ricordate il segnalatore acustico per seggiolini?). È la politica dei “bonus” (monopattino, tablet, vacanze…), delle piccole esenzioni, della variazioni di coefficiente o di aliquota, delle detraibilità al 110% (antitesi del tanto evocato “contrasto di interessi”, presunta panacea mediatica contro ogni evasione fiscale!), delle discipline introdotte permanentemente “in via sperimentale” o “in attesa di riordino della materia”. Una politica – sotto sotto – fondata sull’idea per cui la democrazia la si onora attraverso la bieca somma algebrica dei bisogni di tutti, anche quando questi bisogni si contraddicono, anche quando finiscono di fatto per erodere le risorse (sociali, economiche, lavorative e produttive) della società, anche quando cioè il bene dei singoli fa il male di tutti. Quando, poi, anche di ciò si acquista consapevolezza, e si comincia ad inorridire di fronte a Leggi di Bilancio “monstre” (quelle dell’art. 1, commi 867, 868, 869…), ecco nuovamente riaffacciarsi nel teatro della politica e dei media il “Grande Riformatore”. E ricomincia la giostra.

C’è un modo di spezzare questo ingranaggio? Probabilmente sì. Ma occorre partire dal basso. Occorre prendere coscienza dei contesti storici, politici ed economici; avere il polso delle reali capacità operative della macchina statale; avere ben chiaro che nessun legislatore è onnipotente, perché la sua forza dipende dalla sua concreta capacità amministrativa. È declinare ogni intervento legislativo (anche di grande respiro, di “riforma” appunto) all’interno della sfera delle possibilità. È prendere consapevolezza che è inutile, ad esempio, predicare una maggiore “progressività” delle imposte sui redditi, se prima non valutiamo la reale possibilità – tutto considerato – di ri-generalizzarne la base imponibile, eliminando la miriade di regimi “sostitutivi”, tassati alla fonte e non. Possiamo permetterci cioè di re-includere in essa i redditi di fonte finanziaria o rischiamo di ridurre gli investimenti in Italia? Possiamo permetterci di eliminare la “cedolare secca” sulle locazioni senza timore di (re)incentivare il “nero”? Così come chiedersi se ha senso proporre una “patrimoniale” generale, quando non abbiamo alcuna capacità di intercettare quei cespiti (mobili) ad oggi non tassati in quanto “non visibili” al Fisco (ad esempio, i famosi “gioielli di famiglia”…); più in generale, se ha senso ragionare di “giustizia fiscale” al di fuori di un quadro realistico delle possibilità di chiedere le imposte (di “imporle” appunto… come direbbe Raffaello Lupi, che più di tutti si è occupato di questo aspetto).

Tutto parte da qui. E molto può fare la politica, volendo. Innanzitutto, parlare chiaro, sottolineare le proprie reali possibilità; “ri-costruire” tra i consociati una più adeguata percezione della realtà, entrando possibilmente in dialogo con chi queste cose le analizza per professione (Università e Centri di ricerca). Serve infatti dare una più realistica rappresentazione del potere politico, dei suoi limiti e delle sue dinamiche di funzionamento. Per evitare di idolatrarlo o – all’opposto – di sminuirlo. Per evitare che alla nuova illusione segua l’ennesima delusione, e che alla “Politica” (quella con la P maiuscola) finisca per non credere più nessuno.

* Associato di Diritto tributario, Università degli Studi di Sassari


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