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La caccia alle streghe

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A Glasgow, poco distante dal centro, c’è una sinistra magione. La Pollok House è una tipica dimora nobiliare, che, come tante case d’epoca nasconde una storia di fantasmi. In questo caso il fantasma è di Janet Douglas (un nome assai poco spettrale), cameriera sordomuta della casa, che divenne nel 1677 “cacciatrice di streghe”.

Janet, che vantava doti di preveggenza, incominciò ad accusare cinque compaesani di stregoneria. E così, dopo un processo sommario tipico di questi racconti, i malcapitati furono spediti al rogo (fatta salva – bontà loro – una 14enne che fu rinchiusa in prigione).

Janet, che era diventata una presenza un po’ troppo ingombrante per quella piccola cittadina, fu spedita allora negli Stati Uniti. E se ne persero le tracce, anche se un’altra leggenda la vede ancora coinvolta nei processi alle streghe di Salem. Ma qui forse si esagera nella narrativa.

È a queste inquietanti latitudini che la COP26, durante i giorni di Halloween, apre i battenti. E la vicinanza con la Pollok House non è solo fisica. Infatti la caccia alle streghe che funestò l’Europa ha un insospettabile tratto in comune con il dibattito della COP.

L’Europa del ‘600 fu vittima di una crisi climatica che nell’arco di poche decadi trasformò il tepore medioevale (l’ottimo climatico che aveva portato i vichinghi a colonizzare la verde Groenlandia) in una mini glaciazione che durò tre secoli.

La brusca caduta delle temperature che diede avvio agli “inverni del nostro scontento” non fu accolta con molto rigore scientifico dalle popolazioni locali, soprattutto nelle regioni del Nord, che vedevano impoverirsi i raccolti.

E così cominciò la caccia alle streghe (in realtà senza troppe distinzioni di sesso) per cercare di trovare una giustificazione rapida ed una soluzione magica alla scarsità delle messi. Migliaia di persone furono coinvolte in processi sommari e centinaia subirono esecuzioni brutali ed ingiuste.

Ora un altro sbalzo climatico, stavolta al rialzo, sta generando una nuova caccia alle streghe.

E in questo caso le streghe sono le società energetiche e industriali (acciaierie, automobilistiche, cementifere) che negli ultimi secoli hanno prodotto la realtà che oggi conosciamo: la crescita della popolazione da uno a quasi otto miliardi; il raddoppio dell’aspettativa di vita a oltre 70 anni; il crollo della mortalità infantile dal 43 percento al 4,5 percento (!), l’aumento del reddito pro-capite di 15 volte, l’accesso all’istruzione (la popolazione analfabeta è scesa dall’85 al 15 percento) e via dicendo. Ma di questi successi si parla poco o niente.

Il focus è sulla maggiore esternalità di questa crescita senza precedenti dello sviluppo umano: l’incremento delle emissioni di CO2 che sono salite dalle 280 parti per milione di prima della rivoluzione industriale a 420 parti per milione. E l’effetto di riscaldamento che genera sulla temperatura del Globo.

I round climatici 

Da qui l’avvio di tavoli di discussione (Conference of Parts o COP) che dal 1995 hanno cercato di disegnare un nuovo modello di sviluppo strutturato sul contenimento delle emissioni. Ma il tentativo di pianificazione centralizzata di un modello di crescita a zero emissioni non ha avuto finora successo.

Infatti l’incontro di box tra politica e CO2 è oramai arrivato al terzo round. E finora i punti sono tutti a favore del nostro avversario.

Il primo round parte a Kyoto nel 1997. Il Protocollo, che nella COP3 aveva sancito il primo tentativo di ridurre le emissioni del 5 percento rispetto ai livelli del 1990 per le 37 nazioni industrializzate più l’Unione europea che lo avevano siglato, ha ottenuto risultati molto parziali.

Nel 2012 il taglio effettivo delle emissioni di quei paesi risultò del 12,5 percento ma, alla firma del protocollo, già l’11 percento della riduzione era in tasca ai firmatari grazie alla chiusura delle grandi industrie inquinanti nella ex Unione Sovietica.

Il fallimento fu piuttosto l’uscita di alcuni grandi paesi che avevano siglato l’accordo: gli USA non lo ratificarono, il Canada e il Giappone ne uscirono o rimasero inoperosi. E, soprattutto, la continua crescita delle emissioni globali passate da 22 miliardi di tonnellate nel 1997 a 34 miliardi nel 2015.

L’obiettivo di Kyoto (già conseguito ex ante come abbiamo visto) fu pertanto perseguito continuando a spostare le attività più emissive dall’area dei firmatari a quei paesi asiatici che erano fuori dai radar. Con un effetto probabilmente moltiplicativo invece che di contenimento.

Ora si è appena concluso il secondo round, iniziato a Parigi nel 2015 con la COP21.

In questo caso il modello di governance delle emissioni fu stravolto: tutti i paesi furono coinvolti con un programma di obiettivi non vincolanti (pledge che determinano un impegno soprattutto di natura reputazionale) e con diverse velocità di riduzione. L’obiettivo di contenimento del rialzo delle temperature al 2100 fu reso più esplicito (“ben al di sotto dei due gradi”) con monitoraggi ogni 5 anni, per assicurare il progressivo rialzo degli impegni di riduzione.

Glasgow appunto, la COP26, come primo fact check dell’accordo di Parigi.

Ma da Parigi a Glasgow poco si è fatto: la politica ambientale non riesce proprio a scalfire il suo avversario.

Nel 2020 le emissioni annuali di CO2 sono stabili a 34 miliardi di tonnellate, i combustibili fossili contribuiscono, inalterati, all’80 percento del mix energetico e il peso di solare ed eolico, le armi chiave della transizione, resta appena al 2 percento. Il carbone, dato per morto, è al record storico di prezzi e consumi. Il trend di innalzamento della temperatura è più orientato ai tre gradi che al suo dimezzamento.

In più, cominciano ad emergere scricchiolii sulla sostenibilità economica e sociale della transizione “fast and furious” che gli scenari di riduzione descrivono.  

Nonostante gli scenari più creativi disegnino le prospettive di una sostituzione “morbida” delle fonti emissive, il 2021 ha evidenziato il contrario: se la domanda continua ad essere famelica di fonti fossili e l’offerta invece è già allineata in termini di investimenti al trend di decurtazione più radicale (quello che traguarda il limite di 1,5 gradi e la sostanziale esclusione delle fonti fossili nel nostro futuro), l’equilibrio del sistema energetico ed economico viene meno.

I prezzi esplodono, come avvenuto per il gas (valori autunnali a 200 dollari al barile equivalente!) e le ricadute si proiettano su tutte le attività industriali che hanno un legame stretto con la combustione fossile. Siamo al massimo del prezzo per acciaio, alluminio, rame, zinco. Sui fertilizzanti le attività vengono ridotte al minimo, con potenziale impatto sulla prossima raccolta agricola.

La dolcezza della transizione assume, nei fatti, un forte retrogusto amaro. Glasgow comincia il terzo round. Gli obiettivi sono confermati o addirittura rafforzati (1,5 gradi di riduzione come target attorno a metà secolo), ma gli impegni appaiono più vaghi.

L’assenza di Cina e Russia al vertice e la decisione dell’India di non definire target vincolanti sulla riduzione dell’uso del carbone sono solo una narrativa parziale dell’effettiva portata della crisi politica attorno al clima. L’altra metà racconta di una amministrazione americana incapace di raccogliere il voto del Congresso per arrivare a un pacchetto di sostegno alla transizione per un taglio delle emissioni del 50-55 percento (il doppio rispetto all’impegno di Obama). Di molti paesi europei preoccupati per un inverno con costi dell’energia elevatissimi e rischi per le forniture. Della richiesta all’OPEC e alla Russia di produrre più petrolio e gas. Della riduzione ex-lege dei rincari in bolletta. E dei frequenti blackout in Asia per carenza di carbone.

Insomma, mentre si continua ad alzare l’asticella degli obiettivi, il quotidiano rivela l’impossibilità di sollevarsi da terra. Allo stesso tempo, lo strabismo ideologico impone di continuare ad additare i colpevoli: le grandi società petrolifere, nuove streghe del XXI secolo, che devono smettere di investire sugli idrocarburi. E così si cerca di escludere dalla prospettiva dei prossimi decenni quelle opzioni concrete, come la cattura del carbonio o la sostituzione del carbone con il gas, che appaiono troppo vantaggiose per la continuità del business model delle società oil and gas.

Il piano estremo della transizione prevede un’unica via: la decarbonizzazione per via della defossilizzazione. Un triplo carpiato con giravolta per l’economia mondiale. È quindi molto facile prevedere che anche il round di Glasgow confermi l’infelice trend dei precedenti. E che l’obiettivo 2030 (inclinare la curva delle emissioni in maniera drastica per annullarla nel 2050), sarà inevitabilmente mancato.

Una nuova strategia 

Come possiamo costruire una strategia vincente allora?

In primis accettando il ruolo essenziale che alcune fonti hanno nel mix energetico (alias nella modernità e nel progresso umano). Prendere coscienza che escludere le fonti fossili – o il nucleare – dalla tassonomia (e quindi dalla nostra visione di futuro) vuol dire inaridire progressivamente l’85 percento del potenziale energetico, e, soprattutto, privare tutte le industrie (comprese quelle impegnate nel costruire i nuovi impianti energetici green, o le nuove reti) delle materie prime essenziali per la transizione.

Vuol dire anche che l’intermittenza delle fonti rinnovabili non ha una soluzione tecnologica a portata di mano e che la domanda di energia non ha alternative tali da determinare un rapido cambiamento dei trend e delle modalità di consumo.

Che un mercato privato della supply response, come sono oggi i settori del petrolio, del gas e del carbone, per l’incertezza di lungo termine legata ai nuovi investimenti, e le pressioni degli investitori, determinerà una spinta al rialzo dei prezzi al fine di trovare un bilanciamento attraverso la “distruzione di domanda”.

Che in tale contesto la prospettiva di una transizione equa apparirà un miraggio.

Insomma, che la crisi alimentare del ‘600-‘700 non fu risolta con la caccia alle streghe ma con l’Illuminismo, cioè l’individuazione delle soluzioni tecnologiche più idonee per migliorare i raccolti, senza ideologie ed esclusioni tassonomiche.  Ma con l’arma più efficace: il pensiero logico e il metodo scientifico.

* Chief Financial Officer di Eni. In precedenza è stato Direttore Upstream Americhe di Eni, vice president Strategic Options & Investor Relations di Eni e, prima ancora, responsabile del portfolio della divisione E&P di Eni.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2021 di WE World Energy. WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell’energia pubblicato da Eni – diretto da Mario Sechi – che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.

Source: agi


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