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Inglesi costretti a votare alle Europee. L'ultima beffa dell'odissea Brexit 

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Decidere di lasciare l’Unione europea il 23 giugno del 2016 e ritrovarsi tre anni dopo a dover votare per eleggere il suo Parlamento. Mentre si avvicina la data delle elezioni, quella della partecipazione dei britannici al voto di maggio è forse la rappresentazione più plastica e paradossale della Brexit ‘senza fine’. L’accordo raggiunto all’ultimo vertice Ue straordinario del 10 aprile, prevede che se Westminster non approverà entro il 22 maggio l’accordo di ritiro di Londra dall’Unione, il popolo inglese sarà chiamato alle urne per eleggere ‘pro-tempore’ i suoi 73 rappresentanti a Strasburgo.

Gli eurodeputati  britannici dovranno comunque fare le valige entro ottobre, o in ogni caso un minuto dopo che l’uscita di Uk dalla Ue sarà formalizzata, e lasciare spazio ai migliori non eletti dei Paesi che hanno maturato il diritto di avere altri deputati. L’Italia ad esempio, ne avrebbe tre in più. 

Oltre ai costi che l’erario di Sua Maestà dovrà sopportare – si stima che l’organizzazione delle europee costerà ai cittadini britannici intorno ai 109 milioni di sterline – il ritorno alle urne degli inglesi rappresenta uno schiaffo simbolico clamoroso per la classe dirigente del Regno Unito. E un problema non da poco per le istituzioni Ue che devono far ripartire la macchina della nuova legislatura. 

Gli europei temono che Londra voglia mettere becco sul prossimo presidente della Commissione (da qui la ‘linea rossa’ voluta da Macron che ha spinto affinché la proroga di Brexit non andasse oltre il 31 ottobre, ovvero il giorno prima dell’entrata in carica della nuova Commissione) e sono preoccupati per il fatto che l’arrivo dei parlamentari ‘Brits’ possa sconvolgere la ripartizione delle cariche e l’agenda parlamentare. Elezione del presidente, dei gruppi, dei vertici degli organi interni all’Eurocamera, tutto si complicherà con una settantina di inquilini in più non previsti e con una sorta di mandato ghigliottina.  

Ma se l’Europa si agita, sul fronte britannico è il caos. Il colpo più forte rischia di arrivare dritto in faccia ai Conservatori, divisi al loro interno e ritenuti responsabili dell’impasse sia dai Leavers che dai Remainers. Un recente sondaggio del think tank Open Europe attribuisce ai Tory appena il 23%. Un sondaggio di YouGov va oltre e annuncia la catastrofe, fissando l’asticella al 16%, il minimo storico dal 1834, data di nascita del partito. I più rosei scenari vedono i Tory conquistare 15 seggi, rispetto ai 19 attuali; quelli più foschi parlano al massimo di quattro seggi.

Il pronostico è migliore per il Labour al 37,8% (ben al di sopra del 24,4% delle europee del 2014) e la cui presenza a Strasburgo potrebbe ‘artificialmente’ ampliare il gruppo socialista, creando qualche problema al momento della ripartizione delle cariche.

La Bbc ha avvertito che, dato il contesto, potrebbero essere le elezioni europee più imprevedibili e controverse della storia britannica. Si tratta di un appuntamento elettorale in cui, di solito, i cittadini preferiscono premiare i partiti più piccoli: nel 2014, l’Ukip di Nigel Farage sbancò alle urne, ottenendo il 27% delle preferenze e 24 seggi. Ma la gran parte degli analisti è convinta che il voto di maggio si trasformerà in un “referendum per procura” sulla Brexit. E che a trarne vantaggio saranno i neo partiti che hanno linee chiare a riguardo, sia sul fronte del Leave che del Remain. Prima di tutto, l’euroscettico ed ex leader di Ukip, Nigel Farage.

L’eurodeputato e padre della Brexit ha lanciato il suo Brexit Party e punta sull’“elettorato deluso” dalla mancata uscita dalla Ue. Farage potrebbe monetizzare il risentimento degli euroscettici e la debolezza dei partiti tradizionali e bissare il sorprendente risultato del 2014. “Penso che andremo molto bene”, si è limitato a pronosticare. Di contro, l’appeal dell’Ukip, guidato da Gerard Batten sotto lo slogan “uscita unilaterale”, potrebbe essere ammaccato dal suo spostamento verso l’estrema destra, con il reclutamento dell’attivista anti-islam Tommy Robinson, e dalla mancanza di organizzazione. 

Sull’altro fronte, quello del Remain, vi è l’Independent Group, fondato da 11 deputati europeisti transfughi dal Labour e dai Tory. Il gruppo ha fatto richiesta di essere registrato come partito politico e se sarà ammesso alla consultazione, correrà sotto il nome di Change Uk. I suoi vertici hanno fatto sapere di avere “centinaia” di persone interessate a candidarsi per “rovesciare la Brexit”. Sulla stessa linea, si contano anche i Verdi e i Liberal-Democratici; questi ultimi – che nel 2014 avevano conquistato un solo seggio – hanno invitato a unirsi sotto un’unica bandiera. Il loro leader, Vince Cable, ha lanciato un ammonimento: “La frammentazione del fronte europeista rischia di danneggiare la causa in generale”. 

Il conto alla rovescia per evitare il caos è agli sgoccioli. Maggio. Il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha invitato i britannici a ‘non sprecare questo tempo’. Ma Westminster non sembra avere ascoltato l’appello e ha chiuso i battenti per due settimane. Di Brexit si tornerà a parlare dopo Pasqua. 

Vedi: Inglesi costretti a votare alle Europee. L'ultima beffa dell'odissea Brexit 
Fonte: estero agi


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