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IN MORTE DEL CINEPANETTONE

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Volgarità, scorrettezze, corruzione delle masse. Li hanno accusati di tutto, oggi la pietra tombale è la polemica De Sica-vini abruzzesi. Ma i film di Natale sono stati un’avventura unica nella nostra industria cinematografica

di Andrea Minuz

Per il trailer di “Natale a tutti i c os t i ” c’è già la diffida legale. Testimonial d’eccezione dello sdegno abruzzese: Sgarbi e Lino Banfi Lo diceva già anni fa Enrico Vanzina, che col cinepanettone non c’entra nulla: i loro film di Natale erano un’occasione nazional-popolare Ideologizzazioni esasperate del cinepanettone: prima simbolo delle peggiori nefandezze, poi arrivarono apologie e letture sociologiche Fausto Brizzi, formatosi come sceneggiatore per Neri Parenti: “Ti dicono quali sono gli ingredienti, tu sei il cuoco”. Così si impara a scrivere
Povero cinepanettone, che fine ingloriosa! Oscurato dal “pandoro griffato” di Chiara Ferragni, nuovo oggetto dell’indignazione collettiva, e messo sotto scacco dal “Consorzio tutela vini d’abruzzo” per una battuta di Christian De Sica nel trailer di “Natale a tutti i costi” (il film esce lunedì su Netflix, si chiede a gran voce il taglio della scena, deciderà l’algoritmo abruzzese). Una volta i nemici del cinepanettone erano almeno all’altezza delle performance al botteghino: editorialisti di Repubblica, scrittori, professoresse democratiche, tutto il jet-set dell’antiberlusconismo migliore. I critici ridevano di nascosto, ma mai alle anteprime. Tullio Kezich raccontava d’aver sghignazzato durante “Vacanze di Natale ’95” beccandosi la riprovazione e il disgusto dei colleghi. Entrando al cinema come un antropologo Francesco Piccolo descriveva la platea di “Natale a Miami” nei termini di “un altro mondo”: “donne con la pelliccia, famiglie al completo, nonni coi nipotini”, notando poi come i suoi vicini fossero quasi tutti “molto grassi”, quando ancora si poteva dire così, senza perdere la patente di intellettuale progressista che misura la volgarità dell’italiano medio. Colpevole di essere finito dentro “Natale a New York”, Massimo Ghini rassicurava tutti che sarebbe rimasto un uomo di sinistra, figlio di un militante e partigiano comunista, mentre Sabrina Ferilli se la viveva meglio, per lei si scomodavano Gramsci, il “nazional-popolare”, la meta-ironia. Noemi Letizia sognava invece un giorno di “recitare in un film di Natale” e il Cav. al governo era naturalmente la prosecuzione del cinepanettone con altri mezzi (si scomodavano paragoni storici perentori: “Il cinepanettone sta al ventennio berlusconiano come i telefoni bianchi al ventennio fascista”, copyright Curzio Maltese).
Insomma, egemonia. Del cinepanettone parlavano tutti. Soprattutto chi non ne aveva mai visto uno. La sua forza al box-office era proporzionale alla vergogna e allo scandalo per battutacce e doppi sensi tirati via. Oggi basta un manipolo di bevitori di Montepulciano per mandare in tilt Netflix e il suo tentativo di recupero del rito natalizio, ma naturalmente a casa, sul divano, magari da soli, sotto le coperte. Un “ricordo di cinepanettone”, come il panino alla mortadella di Bottura. Per il trailer di “Natale a tutti i costi” è già arrivata una diffida legale. Ci sono le pressioni di una filiera dell’indignazione abruzzese che vanta anche testimonial d’eccezione: non solo Marco Marsilio, governatore della regione, o Coldiretti Abruzzo o il Consorzio, ma anche Sgarbi, anche Lino Banfi che taglia il nastro per l’accensione delle luminarie ad Avezzano e replica a De Sica: “Amo il vino abruzzese”. E’ chiaro che la vera commedia è questa qui: lettere, comunicati, reclami, rivendicazioni, endorsement. Quale sceneggiatore saprebbe tirare fuori passaggi come “il comparto più brillante e trainante dell’economia abruzzese è stato beceramente ed ingiustamente macchiato”? Oppure immaginare che il Consorzio chieda a De Sica di “cambiare una battuta infelice, visto che c’è tempo”, come fossimo alla recita di Natale. Passato indenne dentro una pletora di rutti, scorregge, accuse di sessismo, maschilismo, omofobia, transfobia, razzismo e tutto il repertorio possibile della “scorrettezza”, il cinepanettone oggi si incaglia per una battuta su un vino abruzzese. E anche questo è un segno dei tempi. Forse eravamo troppo permissivi prima. Di sicuro siamo troppo scemi oggi.
I fan di “Borotalco”, il film di Carlo Verdone del 1982, ricorderanno “il sangue di Bacco, uno spumante dolce che fanno ad Avezzano”. Eleonora Giorgi entra in uno scalcinato bar-pasticceria in cerca di una bottiglia di “champagne italiano” da portare a casa di Manuel Fantoni. Ma lo “champagne italiano non c’è”, spiega la commessa. E tira fuori il “Sangue di Bacco”, “il più dolce che abbiamo”. “Com’è?” “Mah… a molti piace”, risponde lei non sapendo bene cosa dire. Vivevamo tempi spensierati. La commessa non aveva fatto un corso da sommelier. Eleonora Giorgi non era una food-blogger.
Non c’erano recensioni del “Sangue di Bacco” su “Wine Enthusiast”, dov’era lodato come “one of the most iconic marsican wines” (“Il Sangue di Bacco” esisteva davvero, lo conoscevano in pochi e ancora meno erano quelli che lo bevevano, poi si son perse le tracce, come con la “Prunella Ballor” di Fantozzi). Quarant’anni dopo la pasticceria di “Borotalco” è una rinomata enoteca. Lo spumante che fanno ad Avezzano è “un vino che ha vinto il premio bottiglia dell’anno in Abruzzo”, come spiega il figlio di De Sica a cena, nella scenetta del trailer. Il risultato non cambia granché: “Com’è?” “’Na merda”, chiosa l’attore.
Non perderemo tempo a spiegare che una battuta sulle patacche che ci rifilano le enoteche e i premi, le medaglie, i trofei assegnati ormai a qualsiasi cosa funziona meglio col vino abruzzese che con lo Château Margaux. Perché qui siamo in piena suscettibilità, quindi è tutto inutile. L’unico cinepanettone possibile è ormai un cinepanettone rispettoso, attento ai territori, alle minoranze, “inclusivo” o ancora peggio “intelligente”. Ma un cinepanettone intelligente non può esistere. E’ una contraddizione in termini. E per quello “inclusivo” c’è la recita di Natale dei nostri figli. Meglio lasciar perdere. Meglio allora distillare il cinepanettone dalla vita stessa. Cos’altro è la battuta del Cav. sul pullman in regalo ai giocatori del Monza se non un omaggio nostalgico al vecchio cinepanettone che fu? Il Qatar gate invece potrebbe diventare un formidabile “Natale a Bruxelles”, con Eva Kaili nel ruolo di sé stessa, Boldi-cozzolino, De Sica-panzeri e Massimo Ghini che fa Francesco Giorgi, compagno aitante di Kaili, ringiovanito al computer come De Niro in “The Irishman”. Lo diceva già anni fa Enrico Vanzina, che col cinepanettone non c’entra nulla (spesso lo chiamano in causa per aver aperto la strada con “Vacanze di Natale” che però, appunto, era tutta un’altra cosa, figlio della commedia all’italiana e di “Vacanze d’inverno” di Camillo Mastrocinque, con Sordi e De Sica padre). Fino a un certo punto, diceva Vanzina, i loro film di Natale (quelli di Carlo e Enrico Vanzina) erano stati anche una grande occasione nazional-popolare per poter fare il punto sulla situazione italiana (oggi europea). Uno specchio deformante puntuto contro noi stessi, dove ritrovare le caricature dei nostri difetti. Poi invece si sono pian piano trasformarti in un’altra cosa. Sempre più asfittici. Claustrofobici. C’è un punto di rottura che, in genere, gli esegeti individuano nel refrain di “S.P.Q.R”, il celeberrimo “A Iside, famme ’na pompa” di Christian De Sica in tenuta da centurione (messa così sembra volgare, ma rivedetevi tutta la scena su Youtube, i tempi perfetti, le facce che fa De Sica, la sbrodolata intimista prima del raptus, puro Sordi). Comunque, dopo la famosa pompa qualcosa si rompe. Siamo nel 1994 e nessuno usa ancora il termine “cinepanettone”. Ma Aurelio De Laurentiis capisce che la volgarità va spremuta fino in fondo. Si esalta proprio per questa scena (pare amasse rivedersela in loop ridendo in continuazione). Nel film di Natale che ha in mente De Laurentiis non c’è molto spazio per il gioco di specchi con la realtà italiana. I tic del carattere nazionale e della vita pubblica non lo interessano (anni dopo, l’indimenticabile toga-party organizzato da Carlo De Romanis al Foro Italico per il suo rientro a Roma dal Parlamento europeo avrebbe invece ribadito la perenne attualità dell’universo vanziniano, anche in salsa peplum: il film impallidiva di fronte a De Romanis vestito da Ulisse, le ancelle col mojito, gli arcieri, i senatori romani coi grappoli d’uva, la panza di fuori, le maschere da maiali).
Alla fine del 2010, a ridosso dell’uscita di “Natale in Sudafrica”, con Belén entomologa che va in Africa in cerca di una rarissima farfalla (come quella che mostrerà nella sua apparizione smutandata a Sanremo 2012, a riprova di certe capacità rabdomantiche dei cinepanettoni), Christian De Sica diceva: “Sai se ti dovessi raccontare drammaturgicamente la storia non saprei cosa dire, perché è sempre la stessa da 27 anni. La cosa incredibile è che riusciamo ancora a far ridere con una storia che sì, tecnicamente è scritta bene, perché gli sceneggiatori non sono così tremendi, ma alla fine è una storia che va avanti da 27 anni”. Il crollo del cinepanettone arriva infatti giusto giusto l’anno dopo. “Vacanze di Natale a Cortina”, di Neri Parenti, si ferma a 11 milioni. Cifre da capogiro per un film italiano, soprattutto oggi, ma ben al di sotto delle aspettative. Il primo di una serie di incassi cinepanettonici tutti al ribasso. Via via sempre più distanti dai 18 milioni di “Natale in Sudafrica” o dagli ineguagliabili quasi trenta milioni di “Natale sul Nilo”, nel 2002, lo zenit del cinepanettone. Del resto, stava per entrare in scena Checco Zalone, che avrebbe raccolto e rilanciato verso nuovi record il rito del film natalizio. Ma anche Zalone è un’altra cosa. Il rito non era annuale. Si faceva desiderare. Soprattutto dagli esercenti, che lo aspettavano come il Babbo Natale della distribuzione. Però al momento è sparito anche lui. Zalone ha fiutato l’aria. E’ tornato al teatro dove fa il tutto esaurito. I flop al cinema possono attendere.
Si dice spesso, ed è in effetti così, che il cinepanettone è un unicum in tutte le industrie cinematografiche del mondo (“è l’unica saga che fa concorrenza a James Bond”, dice De Laurentiis). Però è unica anche la sua ideologizzazione esasperata, abbastanza folle, certo inspiegabile ad altre latitudini, dove hanno un rapporto più sereno con le cose. Da noi invece sembrava che all’uscita di ogni cinepanettone ci fosse sempre in gioco l’onore e il buon nome del paese o il gusto corrotto delle “masse”. Col cinepanettone trasformato in simbolo delle peggiori nefandezze d’italia, eventualmente anche esportabili (“le vacanze da cinepanettone di Tony Blair”, scrivevano i giornali quando il premier inglese affittò la villa un po’ cafona dei Bee-gees a Miami). Poi anche l’indignazione è passata di moda. E’ arrivata, per contro, l’intellettualizzazione, altrettanto esasperata (a conferma della solita legge: se inizia a piacere agli intellettuali vuol dire che sta uscendo di scena). Apologie, letture sociologiche, sdoganamenti critici, o spericolatissime “analisi testuali” con dentro Rabelais, Bachtin, il carnevalesco, “l’abiezione” di Kristeva, il “male gaze”, la scuola di Francoforte per decostruire i corpi di Boldi e De Sica. “Un giorno, per raccontare una certa borghesia”, diceva Christian De Sica, “si rivedranno i cinepanettoni, così precisi nella loro follia”. E forse non c’era bisogno di aggiungere granché.
Il cinepanettone, se con questo termine dispregiativo intendiamo la forma assunta dalla nostra commedia natalizia grossomodo a partire dagli anni Novanta in su, ha raccolto, rilanciato, semmai esasperato una precisa tendenza del cinema italiano. Fino ai primi anni Ottanta, il film da vedere in sala a Natale era il kolossal hollywoodiano di stagione, oppure Walt Disney. Il rito era questo qui. Vedersi il grande film americano dentro un cinema strapieno di gente. Le prime commedie italiane fatte uscire apposta per Natale che iniziano a rubare spettatori ai kolossal sono quelle di Castellano e Pipolo con Celentano (con un precedente significativo: nel Natale del 1975, “Lo squalo” di Spielberg è il più grande incasso di tutti i tempi, primo al botteghino in tutti i paesi, tranne uno, l’italia, dove è battuto da “Amici miei”). Più o meno insieme arrivarono poi i film con Pozzetto, Montesano, e naturalmente “Vacanze di Natale” dei Vanzina. Successi incredibili. Numeri da capogiro. Film che tenevano testa alle mega produzioni americane con budget cento volte superiori. E’ lì che il film di Natale diventa pian piano un rito italiano. Una commedia, naturalmente. Spesso corale. Un appuntamento fisso. Come Sanremo. Poi la formula si cristallizza, inizia a ripetersi sempre uguale a sé stessa, tranne qualche outsider qui e là (Pieraccioni, Aldo, Giovanni e Giacomo, “I soliti idioti”, poi il caso Zalone).
Sbaglia però chi pensa che i cinepanettoni fossero film tirati via. Sono stati casomai una delle poche operazioni a pianificazione industriale (cioè all’americana) del nostro cinema. Un cinema che è sempre stato allergico agli studi di settore, all’analisi dei dati, alla costruzione del target, in imbarazzo a usare il termine “prodotto” quando si parla di un film. Nei cinepanettoni non c’era mai nulla di casuale: De Laurentiis si presentava dagli sceneggiatori con i dati delle agenzie turistiche per trovare la località più “cool” del momento, per prima cosa si studiavano gli incassi dell’anno precedente, regione per regione, si analizzava la distribuzione. E’ stato anche a suo modo una grande scuola di scrittura, come sempre capita coi progetti su commissione, assai rari nel nostro cinema. “E’ un prodotto industriale in cui tu sei il cuoco”, diceva Fausto Brizzi, formatosi come sceneggiatore nei cinepanettoni di Neri Parenti, “quindi ci devi mettere del tuo, ma ti dicono già che gli ingredienti sono questo, questo e questo: ora, tu cucinamelo bene”. E’ così che si impara a scrivere.
Prima ancora della sua portata sociologica, del fatto di costume, del rito collettivo, il cinepanettone è stato un traino dell’industria cinematografica italiana. Col suo inconfondibile sapore televisivo il cinepanettone faceva sentire a casa lo spettatore che andava al cinema una volta l’anno con gli amici o i parenti e la famiglia. Era come guardare la tv. Però in uno schermo grande, ridendo tutti insieme. Poi a furia di sentirsi a casa, lo spettatore ha scelto di restarci. Amazon e Netflix hanno fatto il resto.

Fonte: Il Foglio