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Immigrazione, rotta balcanica: la lunga marcia senza diritti

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Gianfranco Schiavone, esperto di immigrazione, membro dell’Asgi (Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione) e presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, un ente che opera da 22 anni per l’accoglienza e la protezione legale dei rifugiati alla frontiera triestina e che ha contribuito a fondare, nel 2002, l’allora SPRAR.

 

La “rotta balcanica” da anni è espressione di una vera e propria tragedia umanitaria con migliaia di migranti che vivono condizioni difficilissime, persecuzioni e violenze. Quando e come nasce la “rotta balcanica” e cosa sta accadendo nel cuore dell’Unione europea?

La “rotta balcanica” non è un fenomeno recente come molti credono, bensì ha una storia pluridecennale in quanto via obbligata attraverso la quale transitano coloro che sono in fuga dai contesti di guerra (e dai diversi regimi totalitari) del Medio Oriente, una delle aree a maggiore instabilità del mondo. Se esaminiamo i dati pubblicati da Eurostat sulle domande di asilo presentate nella Ue nel 2018 e nel 2019, vediamo che tra le prime dieci nazionalità il 32,72% dei richiedenti asilo proviene dall’Afghanistan, il 25,91% dal Pakistan, l’8,03% dalla Siria, il 6,56% dall’Iraq e infine il 4,61% dall’Iran. Si tratta delle stesse nazionalità che troviamo in assoluta prevalenza lungo appunto la rotta balcanica che si conferma dunque una delle principali vie di fuga dei rifugiati a livello internazionale. Parlare di apertura o chiusura della rotta è dunque una sciocchezza: l’Unione europea sa benissimo che molti rifugiati giungono in Europa attraverso i Balcani ma non ha alcuna strategia per gestire questi arrivi che non sia quella di bloccarli al di fuori della sua porta.

 

Il 18 marzo del 2016 fu diffusa la Dichiarazione tra l’Unione europea e la Turchia. Cosa conteneva quella dichiarazione e quali effetti ha prodotto?

Secondo quella Dichiarazione, «Tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia», precisando che ciò sarebbe avvenuto «nel pieno rispetto del diritto della Ue e internazionale, escludendo pertanto qualsiasi forma di espulsione collettiva». La giustificazione politica stancamente riproposta un po’ in tutte le occasioni è sempre la stessa, ovvero la necessità di salvaguardare vite umane e contrastare il traffico criminale di esseri umani. Infatti, si dichiarò che «una volta terminati, o per lo meno drasticamente e sostenibilmente ridotti, gli attraversamenti irregolari fra la Turchia e la Ue, verrà attivato un programma volontario di ammissione umanitaria. Gli Stati membri della Ue contribuiranno al programma su base volontaria». I fatti che seguirono sono chiari: non c’è stato alcun piano di reinsediamento dei rifugiati dalla Turchia verso l’Europa mentre nel frattempo il numero dei rifugiati in Turchia, per la stragrande maggioranza siriani, è arrivato allo sbalorditivo numero di quasi 4 milioni. La Dichiarazione Ue-Turchia fu presentata come un accordo siglato tra l’Unione e uno Stato terzo, ma fu in realtà solo volgare propaganda perché, come sancì la Corte di Giustizia dell’Unione nel febbraio 2017 (causa T-257/16 sollevata di fronte alla Corte da NS residente nell’isola di Lesbo) nel dichiararsi incompetente a valutare sulle violazioni (altrimenti eclatanti) del diritto dell’Unione, il controverso accordo europeo non è mai esistito perché non fu fatto dall’Unione ma dagli Stati membri. Si tratta di uno dei più sconcertanti eventi della contemporanea storia europea che, ben lungi dal salvare la Ue dall’invasione dei rifugiati e dalla nascita dei sovranismi, ritengo ci abbia infilato in un tunnel dal quale non riusciamo più ad uscire. La strategia del blocco, specie se prolungata nel tempo, non funziona e rende più difficile una soluzione. I rifugiati, che non possono tornare nei loro paesi perché permangono i conflitti ma non possono neppure rimanere in Turchia tutta la loro vita, hanno come unica prospettiva quella di andare avanti e quindi di entrare in Grecia e poi risalire i paesi balcanici. Quelle che vediamo intrappolate nei Balcani sono in larga parte persone che hanno lasciato i paesi di origine da anni e sono rimaste bloccate nei diversi Paesi Ue e non Ue tra la Turchia e la Bosnia. Si tratta di persone che hanno vissuto esperienze fortemente traumatiche per lunghi periodi di tempo e di ciò ne porteranno il segno a lungo. Ancora una volta, ciò che l’Europa ha fatto è stato dare sempre la stessa risposta ovvero ergere nuove barriere usando la Grecia e la Bulgaria e poi gli altri Stati non Ue dei Balcani come luoghi nei quali trattenere i rifugiati.

 

Cosa rappresenta il confine croato-bosniaco e quale ruolo gioca nello scacchiere delle politiche europee sulle migrazioni?

Il confine croato-bosniaco rappresenta l’ultima possibilità di bloccare le persone perché dopo quel confine si estende la Ue senza soluzione di continuità e non c’è più molto da fare (nonostante, come vedremo, i respingimenti a catena che hanno coinvolto persino l’Italia). Ciò spiega l’incredibile livello di violenza attuato su quel confine. Tra marzo 2019 ed ottobre 2020, secondo i dati elaborati dal Danish Refugee Council, sono state respinte quasi 22mila persone dalla Croazia verso la Bosnia; circa il 70% di loro ha subìto forme di violenza più o meno pesante, comprese violenze estreme ed uso di tortura. Si tratta di fatti inoppugnabili, ampiamente documentati, che delineano il più esteso e sistematico uso della violenza che sia mani accaduto in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ciò pone domande etiche e giuridiche cruciali: come è possibile questo livello di violenza ed illegalità nel nostro continente? Fino a dove ci vogliamo spingere per potere realizzare questo disegno di blocco degli arrivi? Molti si chiedono perché mai non si realizzino programmi di ricollocazione nella Ue delle poche migliaia di rifugiati bloccati in Bosnia e che ciò non si faccia neppure per i minori non accompagnati, per le famiglie (e per le situazioni vulnerabili) lasciate a morire di stenti. In fondo, si tratta di numeri non modesti ma ridicoli per il continente. La risposta è molto cruda: non si decide di spostare neppure un rifugiato non per difficoltà (che pure ci sono) ma per incapacità di raggiungere una intesa a livello europeo; ben sarebbe sufficiente, per questi numeri, un programma attuato volontariamente da un gruppo di Stati. La ragione di tanta chiusura è il panico assoluto che assale le Istituzioni della Ue e i suoi governi, compreso quello italiano, di fronte all’idea che ricollocare anche solo alcuni dei più disperati rifugiati intrappolati in Bosnia significherebbe lanciare un messaggio di richiamo verso i milioni di persone che stanno dietro di loro. Questo panico, invece di spingerci a cambiare l’attuale strategia, produce, all’opposto, una sorta di paralisi mentale per cui siamo irretiti ed immobili, disponibili all’uso della violenza, percepita come “necessaria” per difenderci.

 

Il Governo italiano è responsabile, come ha ammesso il Ministro dell’Interno, delle cosiddette “riammissioni informali” dei richiedenti asilo derivanti dalla tesi secondo la quale Slovenia e Croazia sarebbero “paesi sicuri”. Qual è la sua opinione al riguardo?

La vicenda delle cosiddette “riammissioni informali” è, a mio avviso, una delle pagine più oscure degli ultimi anni perché si è consentito di dare corpo a una vera e propria costruzione ideologica la cui finalità è stata quella di impedire, alla frontiera terrestre italo-slovena, l’esercizio del diritto d’asilo. Il diritto d’asilo, sancito dall’art. 10 terzo comma della Costituzione quale diritto soggettivo perfetto, si sostanzia innanzitutto nella possibilità concreta ed effettiva di chiedere asilo alla Repubblica, presso le sue frontiere o all’interno del territorio. Se tale possibilità di accesso è negata, il diritto d’asilo viene annullato alla radice. Tutto ciò può apparire così evidente da non avere bisogno di ulteriore approfondimento né sembra sia possibile immaginare l’esistenza di una prassi istituzionale che si ponga in violazione di tale principio. Eppure, è proprio ciò che è successo; da metà maggio 2020 sul confine terrestre italo-sloveno nelle province di Gorizia e Trieste, e di quest’ultima in particolare, ha infatti preso avvio una intensa attività di polizia, coadiuvata anche da unità militari, finalizzata ad attuare delle “riammissioni informali” degli stranieri rintracciati in posizione irregolare appena passato il confine tra la Slovenia e l’Italia. L’operazione venne subito presentata come una importante operazione per la sicurezza dei confini realizzata grazie al ripristino di un accordo tra l’Italia e la Slovenia, firmato a Roma nel lontano 3 settembre 1996 ed entrato in vigore il 1° settembre 1997, che consente la riammissione reciproca in forma semplificata degli stranieri rintracciati in posizione irregolare nell’area di confine. L’accordo italo-sloveno (che non è stato ratificato dal Parlamento italiano ai sensi dell’art. 80 Costituzione e che non può introdurre modifiche né derogare alle leggi vigenti) rientra tra gli accordi inter-statali precedenti all’entrata in vigore della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri; come tale, esso è quindi in astratto applicabile ma solo nell’ambito dell’evoluzione del diritto interno e del diritto dell’Unione europea degli ultimi vent’anni, ed in particolare per ciò che attiene l’evoluzione del sistema europeo di asilo. È pacifico che l’accordo di riammissione non può trovare applicazione a chi, alla frontiera o subito dopo, chiede asilo alle autorità italiane perché esso riguarda solo gli stranieri irregolarmente presenti, ai quali si può applicare la riammissione nel paese con il quale si ha un accordo in luogo dell’espulsione. Gli Stati sono obbligati a permettere, a chiunque voglia richiedere asilo nei propri territori, di poterlo fare a partire da quanto dispone l’art. 3 del Regolamento (Ue) n. 2016/399 (Codice frontiere Schengen) che prevede che il Regolamento si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro, senza pregiudizio dei diritti di coloro che richiedono protezione internazionale. Inoltre, il Regolamento (Ue) n. 604/2013 noto come Regolamento Dublino III all’art. 3 prevede che: «Gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito». Il Regolamento Dublino III impedisce dunque tassativamente agli Stati di riammettere nel paese confinante i richiedenti asilo in quanto la domanda di asilo presentata ad una frontiera interna va sempre e comunque registrata, il richiedente va temporaneamente accolto nel territorio mentre viene attivata la procedura prevista dal Regolamento per verificare quale sia il paese competente ad esaminare la domanda, ovvero se sia il paese in cui si trova o un altro ritenuto competente (e non necessariamente quello confinante) nel quale il richiedente, appunto, potrà essere inviato a seguito di una complessa procedura che prevede precise garanzie. Che l’intenzione dell’intera operazione delle riammissioni informali fosse quella di eludere radicalmente il diritto dell’Unione e persino impedire la presentazione delle domande di asilo in Italia, è apparsa subito chiara ma è divenuta vera e propria ammissione il 24 luglio 2020 quando, rispondendo ad una meritoria interrogazione urgente presentata dall’on. Riccardo Magi, tra i pochi che in quel momento aveva colto l’abnormità di quanto stava avvenendo, nella semideserta Aula di Montecitorio, il Governo italiano ha confermato di applicare l’accordo di riammissione al confine italo-sloveno «anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere protezione internazionale». La sorprendente risposta del Governo entrava anche nel dettaglio procedurale evidenziando che: «(…) si provvede alla registrazione delle istanze nei casi in cui sia manifestata la volontà di richiedere asilo nel corso delle interviste», precisando tuttavia che: «Qualora ricorrano i presupposti per la richiesta di riammissione e la stessa venga accolta dalle autorità slovene non si provvede all’invito in Questura per la formalizzazione dell’istanza di protezione». Si tratta di affermazioni di una sconcertante illegalità perché il diritto di presentare domanda di asilo all’Italia viene a dipendere dall’arbitrio di due forze di polizia, quella italiana e quella slovena e, in caso di riammissione, il malcapitato non viene tradotto forzatamente in Slovenia come richiedente (non si potrebbe farlo perché andrebbe applicata la procedura prevista dal Regolamento Dublino III come ho sopra evidenziato) bensì come un semplice straniero irregolare. Il diritto d’asilo, inteso quale diritto di potere chiedere protezione, semplicemente svanisce in questo abile gioco di prestigio, con buona pace della Costituzione. A questo quadro, già di per sé inquietante, si aggiunge il fatto che la riammissione è “informale”, elegante eufemismo per indicare che il respingimento alla frontiera con accompagnamento coattivo nel vicino Stato ad opera della polizia italiana non solo avviene, come dovrebbe, nell’ambito di una procedura soggetta a convalida da parte dell’autorità giudiziaria trattandosi di una misura che incide sulla libertà personale, bensì l’intera azione si svolge senza l’emanazione di alcun provvedimento motivato in fatto e in diritto e notificato allo straniero. Viene così negato alla persona, trasformata in un soggetto invisibile, il diritto di ricorrere contro il provvedimento (che non c’è) con il quale è stato impedito il suo ingresso in Italia e non è stata registrata la sua domanda di asilo, in flagrante violazione di un altro fondamentale precetto costituzionale, quello sul diritto di difesa (art.24) nonché del diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’art. 13 della Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo. Arriviamo dunque ora a comprendere come l’enfasi costantemente posta sulla Slovenia come “paese sicuro” è null’altro che un’operazione di propaganda per distogliere l’attenzione dalle procedure illegittime sopra descritte. Chi infatti potrebbe mai contestare, in linea generale, che la bella Slovenia nella quale molti italiani trascorrono le vacanze (come nella vicina Croazia) è un paese sicuro e che può trattare, al pari dell’Italia, le domande di asilo?

 

Recentemente il Tribunale di Roma ha sancito l’illegittimità della procedura di riammissione attuata al confine orientale italiano. Ci vuole spiegare qual è l’importanza di questa ordinanza e quali prospettive apre?

Posso rispondere velocemente a questa domanda, avendo già indicato nella precedente le principali ragioni in base alle quali il Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità delle riammissioni. L’ordinanza riconosce che il diritto d’asilo quale diritto di chiedere protezione all’Italia è stato violato alla base e per questa ragione dispone che lo straniero, che nel frattempo si trova in Bosnia dopo essere stato vittima del gioco delle riammissioni a catena, abbia il diritto di entrare nel territorio della Repubblica italiana al fine di esercitare quel diritto di richiesta di asilo che gli è stato negato. Non si tratta, come alcuni potrebbero demagogicamente sostenere, di aprire le porte a tutti senza criterio: non sappiamo infatti se questo straniero si vedrà riconosciuta o meno la protezione; egli può essere un rifugiato oppure non esserlo affatto, ma per accertare ciò la domanda di asilo deve potere essere esaminata: altrimenti il diritto di asilo semplicemente non esiste. L’ordinanza si muove nel solco della sentenza n. 22917 del 28 novembre 2019 con la quale il Tribunale di Roma aveva riconosciuto il diritto a rientrare in Italia ad un gruppo di migranti che l’Italia aveva illegittimamente respinto in Libia nel 2009, impedendo loro di arrivare nel nostro Paese per chiedere asilo.

 

Questa ordinanza può cambiare il quadro di riferimento anche per le tragedie del Mediterraneo, in relazione alle politiche di controllo in mare e respingimento dei profughi verso i paesi nord-africani e in particolare in Libia?

Il Governo italiano, quale che sia la sua maggioranza politica, dovrebbe comprendere, alla luce della giurisprudenza di cui sopra, che il diritto d’asilo è un diritto fondamentale che non può mai essere negato, né nel modo più evidente e brutale come è avvenuto con i respingimenti verso la Libia (vedasi anche la nota Sentenza CEDU con la quale l’Italia è stata condannata nel caso Hirsi ed altri del 23 febbraio 2012) né nella forma, più elusiva ed ambigua, ma non meno illegittima, delle attuali “riammissioni informali” al confine terrestre.

 

Le politiche migratorie adottate dai singoli paesi europei e poi dall’Ue stessa sono risultate, anche per via giudiziaria, spesso responsabili di discriminazioni, tragedie, violazioni di diritti costituzionali. È, secondo lei, in corso una torsione della democrazia o una sua evoluzione in senso autoritario che la questione mette in evidenza pur non limitandosi solo a questo fenomeno?

È una domanda difficilissima perché ciò che mi si chiede di fatto è di dare una lettura sulla direzione che ha assunto l’evoluzione storica del nostro continente. Qualunque affermazione in tal senso, oltre che esorbitare dalle mie modeste competenze, sarebbe un azzardo. Ciò che mi limito ad osservare, con forte preoccupazione, è che il cambiamento profondo portato dalle migrazioni ha aperto una profonda crisi nella democrazia europea e nei nostri stessi sistemi giuridici. Siamo così spaventati da questo cambiamento che siamo divenuti progressivamente sempre più disponibili ad accantonare i nostri princìpi giuridici e i nostri valori di fondo per contrastare l’arrivo di persone che vengono da altri paesi, anche quando di tratta di persone in fuga da persecuzioni e conflitti. Il diritto d’asilo viene ancora osannato come diritto fondamentale nelle dichiarazioni ufficiali ma nella realtà non è più così da tempo. Non è più una questione di scelta di normative aperte o restrittive; siamo già andati molto oltre. Infatti, ciò che mi spaventa è che sembra che stiamo arrivando veramente molto vicino a un punto di collasso del sistema di tutela dei diritti fondamentali e a una piena accettazione dell’uso della violenza come metodo di gestione delle migrazioni. La rotta balcanica, ovvero ciò che avviene dalla Grecia fino a Trieste, restituisce la gravità della situazione con una chiarezza che altri contesti forse non hanno. Cito solo alcuni fatti, senza alcuna completezza: nel 2020 in Grecia (vedasi la autorevole inchiesta del New York Times) la polizia si introduceva nelle strutture di prima accoglienza, prelevava i migranti appena arrivati, li caricava a forza su imbarcazioni di fortuna spingendole alla deriva verso la costa turca; in Bulgaria si organizzano, con pieno appoggio istituzionale, ronde di bravi cittadini (che nella vita comune fanno i medici, gli insegnanti, gli educatori e altro) per pattugliare la frontiera e respingere i rifugiati; l’Ungheria continua a violare sistematicamente il diritto d’asilo alla sua frontiera, nonostante la recentissima condanna della Corte di Giustizia. Al confine croato-bosniaco non solo si impedisce a chiunque di esercitare il diritto di chiedere asilo ma un numero enorme di persone (22mila da marzo 2019 a novembre 2020 secondo l’autorevole Danish Refugee Council) è stato respinto in Bosnia con uso, nel 60-70% dei casi, di violenze fisiche anche efferate, trattamenti degradanti e persino torture. Si tratta di un ricorso alla violenza che non è frutto di apparati fuori controllo, bensì è pianificata e sistematica e per dimensioni non ha precedenti nella storia europea dopo la fine del secondo conflitto mondiale. È dentro questo gorgo oscuro che va letta la vicenda, affatto secondaria, delle riammissioni informali attuate dall’Italia. Anche se non si riscontra (o almeno sicuramente non in modo sistematico) l’uso di violenza fisica da parte delle Forze di polizia italiane, ciò che dobbiamo guardare con attenzione è come anche nel nostro Paese è stato costruito a tavolino un apparato ideologico finalizzato a giustificare atti illegali attuati su vasta scala dai pubblici poteri.

 

Quali politiche, accordi e interventi il neonato Governo Draghi dovrebbe promuovere per porre termine alle tragedie e sofferenze vissute dai richiedenti asilo e profughi della “rotta balcanica”?

Il Governo Draghi è un Governo di transizione che nel perseguire alcune priorità di interesse nazionale richiede la massima coesione politica possibile; in tale ottica si situa la richiesta, fatta da Draghi stesso alle diverse forze politiche, e specie (ma non in via esclusiva) alla Lega, di congelare o almeno ridimensionare posizioni tra loro incompatibili ovvero “divisive” come si usa dire con una espressione coniata di recente. Non esprimo valutazioni su questa scelta politica, forse sbagliata o invece inevitabile in questa fase dai tratti eccezionali, e di conseguenza non mi aspetto nessuna azione innovativa (e forse proprio nessuna azione affatto) nella gestione dell’immigrazione e dell’asilo in Italia. Sotto questo profilo il nostro Paese continuerà solo ad accumulare il già enorme ritardo nel suo lento evolversi verso una società plurale (un ritardo di cui già paghiamo, in termini di sviluppo sociale, economico e culturale, un prezzo altissimo). Draghi non potrà però eludere il compito di ripristinare un livello minimo di legalità nella gestione delle frontiere bloccando il riottoso apparato del Viminale e quindi facendo cessare le riammissioni informali. Se non lo farà, significherà che non ha la statura politica che gli si attribuisce assumendosi gravi responsabilità. Ovviamente, agire per il ripristino della legalità interna non è sufficiente e bisogna parallelamente agire affinché cambi la politica dell’Unione sui Balcani non sostenendo più l’uso della violenza da parte della Croazia e iniziando ad alleggerire la Bosnia di una situazione che non può continuare a reggere. In senso più ampio, ma qui mi fermo per non prendere altro spazio e rinvio alle analisi pubblicate da ASGI e da ECRE (European Council on Refugees and Exiles), bisogna modificare in profondità l’irrazionale e perniciosa impostazione contenuta nella proposta di Patto per le migrazioni e l’asilo che è interamente schiacciata sugli obiettivi del controllo delle frontiere e dell’appalto a paesi terzi del compito di trattenere i migranti.

 

Il nuovo Governo come dovrebbe organizzare/riformare il sistema di accoglienza nazionale?

Su questo punto dobbiamo riconoscere che c’è stato un miglioramento netto con la legge del 18 dicembre 2020 n.173 che ha completamente cancellato l’impostazione data dai cosiddetti “Decreti Salvini” ripristinando l’impianto del sistema previgente (SPRAR, ora SAI) basato su un’accoglienza dei richiedenti asilo “diffusa” e mirata ad una prima integrazione sociale in luogo della segregazione in degradate grandi strutture-parcheggio. Se tutto ciò è positivo, va purtroppo detto che avere mantenuto inalterata l’impostazione normativa previgente rappresenta un grave limite che, temo, bloccherà lo sviluppo del nuovo SAI come aveva già impedito quello dello SPRAR. A quasi vent’anni dalla nascita dello SPRAR (esso nacque nel 2002) il Legislatore avrebbe dovuto avere il coraggio di produrre una reale innovazione attuando, in conformità con gli artt. 117 e 118 della Costituzione, un progressivo trasferimento di funzioni amministrative agli Enti locali nella gestione dei servizi di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati; servizi che hanno una natura socio-assistenziale e che come tali è irragionevole attribuire alla gestione diretta dello Stato tramite le Prefetture (che oggi si occupano di organizzare attorno al 70% del sistema nazionale di accoglienza). In questa materia allo Stato dovrebbero rimanere solo la programmazione, la definizione degli standard, il monitoraggio e l’esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienze rilevanti. L’eterna riproposizione dell’irragionevole (ma politicamente comodo) principio dell’adesione totalmente volontaria da parte dei Comuni è una scelta che riproduce un modello sbiadito ed anacronistico, impedendo in tal modo lo sviluppo di un vero sistema nazionale di accoglienza che sia all’altezza delle sfide del nostro tempo.

fonte: L’eurispes.it