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Il terremoto del Belice

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Fonte @servizio-nazionale.protezionecivile.gov.it/

Nel 1968 l’Italia subisce la prima grave emergenza del dopoguerra. Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio un violento terremoto di magnitudo 6.4 colpisce la Sicilia occidentale e, in particolare, le province di Palermo, Trapani e Agrigento. La Valle del Belice è devastata. Gibellina, Montevago, Poggioreale e Salaparuta sono rase al suolo. Gravemente danneggiate anche Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Scafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi e Santa Margherita del Belice.

Il bilancio è pesantissimo: 296 persone perdono la vita, oltre mille restano ferite e quasi 100mila sono senza casa. La catastrofe mette in luce anche la fatiscenza delle abitazioni, che non reggono alle scosse. Il patrimonio edilizio rurale subisce danni irreparabili, con ripercussioni gravi sull’economia quasi esclusivamente agricola del territorio. Inizia così un lungo periodo sismico che si conclude un anno più tardi, nel febbraio del 1969. Innumerevoli le scosse, le più forti delle quali tra il 14 ed il 25 gennaio 1968 quando – con le squadre di soccorritori ancora a lavoro tra le macerie – una violenta replica provoca la morte di un vigile del fuoco e ulteriori danni tra Palermo e Sciacca.

La difficile gestione dell’emergenza, i ritardi nei soccorsi, le persone senza casa costrette all’emigrazione: il terremoto del Belice segna pesantemente la storia italiana del dopoguerra e migliaia di famiglie vedono la propria vita cambiare per sempre. Dopo i primi drammatici mesi, i terremotati del Belice arrivano a Roma per far sentire la propria voce e la parola è una sola: ricostruzione. Il 2 marzo del 1968 terremotati e studenti si incontrano in Piazza Colonna, davanti al Parlamento, e chiedono al Presidente del Consiglio Aldo Moro una legge ad hoc per lo sviluppo della valle del Belice.

Quella del Belice sarà una ricostruzione molto lunga, i centri abitati saranno spostati in luoghi distanti da quelli colpiti dal terremoto senza tenere realmente conto delle esigenze di vita e di lavoro degli abitanti del luogo. Tuttavia, grazie anche al momento storico di grande fermento umano e culturale, il Belice diventa un laboratorio a cielo aperto e la stessa città di Gibellina è ricostruita a partire dal contributo di intellettuali e artisti come Sciascia, Consagra, Schifano, Pomodoro,  Paladino.

Il “Grande Cretto” di Alberto Burri è un simbolo potente di questo intervento. L’opera contemporanea, tra le più estese al mondo, sorge sulle macerie di Gibellina che l’artista “congela” con il cemento. Una veste bianca, che copre e al tempo stesso protegge la città distrutta dal terremoto e la memoria della sua gente.