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IL POZZO DEI DESIDERI

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Dalle promesse ai provvedimenti: il catalogo da brividi che imbarazza il governo alle prese con guerra, scarsità e inflazione

Stefano Cingolani

Pagherete meno, tregua fiscale, basta pos. Così riparte l’economia, giurano, anche se gli anni del lassismo fiscale sono stati anni di stagnazione La vittoria della destra è stata interclassista, ma la sua politica finora si è concentrata sui circa 5 milioni di autonomi, la piccola borghesia Il desiderio dei desideri è più che mai un bilancio cornucopia appoggiato da una banca centrale che stampa moneta. Lo suggeriva Mefistofele La destra ha seminato tempesta e ne raccoglie i frutti. E la sinistra? Non è un segreto che Enrico Letta sia rimasto l’unico draghiano nel Pd
Odino s’avvicinò alla fonte e chiamò Mimir, il dio uscì dal pozzo e gli chiese che cosa volesse. Io voglio bere l’acqua della conoscenza, disse Odino, tu cosa vuoi in cambio? Dammi l’occhio sinistro, con quello destro potrai vedere e capire ogni cosa, gli rispose Mimir. E Odino si cavò l’occhio, e lo gettò nel punto più profondo da dove sgorgavano i flutti, e conobbe tutto quello che c’è da conoscere, e divenne il re degli dei. Nasce da qui il pozzo dei desideri che dall’alto medioevo arriva fino a noi. La leggenda della mitologia nordica è diventata, in questo nostro mondo miscredente, un videogioco chiamato Assassin’s Creed Valhalla, ma il pozzo dei desideri esiste ancora, solo che invece di dei e supereroi è popolato di supplici e invece della conoscenza elargisce promesse. A Roma dove anche il paradiso ha un prezzo, si scambia per una monetina la certezza del ritorno, tra gli zampilli della fontana di Trevi. Mentre a trecento metri di distanza, nel cortile di Palazzo Chigi, i desideri si tuffano nel bilancio dello stato e il pozzo mistico si trasforma in un pozzo senza fondo.
La fila dei questuanti diventa sempre più lunga a mano a mano che si svuotano i granai. Il Draghi boom ancora non è spento, basta dare un’occhiata ai profitti delle imprese e delle banche per le quali la fine dei tassi negativi è una vera manna. Ma la moneta buona, quella a basso prezzo, è spiazzata da quella cattiva che costa più cara; chiamatelo se volete il paradosso della finanza. D’altronde anche la svalutazione del denaro è il paradiso dei paradossi: una condanna per chi ha un reddito fisso, ma una benedizione per chi può scaricare i costi sui prezzi finali; una minaccia per la crescita dell’economia, un salvacondotto per chi ha troppi debiti e non riesce a pagarli. Sotto i colpi di una terribile trimurti (guerra, scarsità, inflazione) la tumultuosa ripresa del biennio 2021-2022 lascerà il posto a una stagnazione lacustre nel 2023, ma se la crescita economica diventa calma piatta, la pressione sociale, rimasta senza valvola di sfogo, rischia di far esplodere la pentola. La ripresa aveva alimentato i desideri e la campagna elettorale li ha trasformati in promesse, talvolta in impegni scritti nero su bianco.
Il primo obolo si chiama condono. Nella Bibbia i debiti venivano cancellati ogni sette anni (Deuteronomio 15,1). La Chiesa cattolica ha accoppiato la loro remissione a quella dei peccati e per questo c’era il giubileo. Quel moralista di Martin Lutero tuonava contro la vendita delle indulgenze, ma almeno facevano entrare qualche soldo nelle casse di San Pietro. Il più prosaico condono si ripete a ogni elezione e non è detto che porti un vero beneficio alle casse dello stato. Chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato, lo dicono a Napoli, ma vale anche per la Padania. Il partito delle partite Iva è al lavoro: pagherete meno (il 15 per cento) anche se non tutti, tregua fiscale, l’agenzia delle entrate si occuperà solo dei grandi evasori, si torna al contante, basta con diavolerie digitali come il pos, il tassista potrà buttarvi fuori se avete solo il bancomat, l’idraulico potrà lasciarvi il lavandino otturato se chiedete la fattura. Così si rimette in moto l’economia, giurano, anche se non è mai successo: gli anni del lassismo fiscale sono stati anni di stagnazione, basta dare un’occhiata all’andamento del pil dal 2001 a oggi e metterlo in relazione con i diversi governi e le loro politiche fiscali. E’ normale se i denari risparmiati finiscono sotto il materasso o alle Bahamas. Intanto, c’è chi fa i conti e s’arrende all’evidenza.
Maurizio Leo, il responsabile economico di Fratelli d’italia, è uno che s’intende di tasse. Nella sua prima uscita come viceministro dell’economia ha detto quel che tutti sapevano: la flat tax costa troppo e non si può fare. Ciò vale anche per la versione “incrementale” uscita dal suo stesso cervello. Intanto si accontenterà il popolo delle partite Iva fino a 85 mila euro di imponibile, insomma ce l’avrà vinta la Lega. Per i dipendenti è più complesso, si pensa a un’escamotage agendo sui premi di produttività nelle aziende private. Dunque, il governo fa una scelta di classe. La vittoria della destra è stata interclassista nel senso che ha preso voti dai più diversi strati sociali, ma la sua politica finora è concentrata su commercianti, artigiani, autonomi, piccoli imprenditori, la piccola borghesia. Nell’insieme sono circa cinque milioni di lavoratori. Operai, tecnici, impiegati, professori, insomma quelli che hanno una busta paga, sono invece oltre 18 milioni. Per loro ci sono solo le briciole? I sindacati mugugnano. La Cgil di Maurizio Landini lancia vane speranze di un aumento generalizzato dei salari: fughe in avanti pericolose, ammonisce la Banca d’italia. La Confindustria alza la sua pur flebile voce: la priorità è ridurre il carico delle imposte e dei contributi sul costo del lavoro, un sollievo anche per le imprese. Ma, fatti i conti, resta poco: l’obiettivo è un taglio del 5 per cento, per adesso c’è spazio solo per due punti.
E i pensionati che sono 16 milioni? Qui le promesse si sprecano: a morte la Fornero (la legge), tutti in pensione il prima possibile, uno scambio generazionale con i vecchi che lasciano il posto ai giovani. Tante ne ha dette Matteo Salvini e poche ne ha fatte già nel 2018 durante l’epoca del Papeete quando “il Capitano” comandava con piglio caporalesco. Per il momento, non c’è trippa nemmeno per i pensionati, il governo se la caverà con rinvii e ritocchi, poi si vedrà, anche perché le idee sono poche e confuse. Dal primo gennaio, senza interventi, scatterebbe la Fornero (la legge) con l’uscita dal lavoro a 67 anni per tutti. Fino a oggi ha funzionato quota 102, cioè 64 anni con 38 di contributi versati, il sistema di transizione inventato dal governo Draghi. Prima c’era stata quota 100 per tre anni. Meccanismo costoso: quasi 30 miliardi. Per quota 102 a regime servirebbero ben 70 miliardi in due anni che si aggiungono ai 50 miliardi in quattro anni solo per adeguare l’assegno all’inflazione. I cervelli delle “parti sociali” fumano, a Salvini fuma qualcos’altro, ma allora li mette lui i miliardi che mancano? Si ragiona su forme più flessibili: salvare le aspettative di chi vuole ritirarsi e mantenere le competenze che servono alle imprese. L’idea è arrivare ai 41 anni di anzianità contributiva (età tra 61 e 63) aggiungendo un premio a chi resta: niente contributi fino al 10 per cento, il che diventerebbe così salario netto. Chi vivrà vedrà.
I soldi non ci sono, ma si possono trovare. Come? Via il reddito di cittadinanza, basta con il superbonus al 100 per cento, ammainare una volta per tutte le bandiere dei grillini. Parlare non costa nulla, anzi si acquistano consensi. Ma fare, questo sì, ha un prezzo salato. I sottosegretari e i viceministri parlano, il ministro dell’economia si tappa le orecchie. Giancarlo Giorgetti non intende far ripartire il debito pubblico, quindi si può allargare un pochino il disavanzo, dell’un per cento circa, perché non è più possibile contare sull’effetto automatico indotto dalla crescita. E il titolare del Tesoro martella sugli sprechi da reddito e superbonus. Né Giorgia Meloni né Matteo Salvini, però, vogliono perdere voti e sanno bene che il reddito lo prendono anche nel lombardo-veneto, non solo nel mezzogiorno, quanto al superbonus sono scesi in campo accanto agli inquilini anche i costruttori, con le piccole imprese che minacciano licenziamenti di massa. Dunque, per il reddito ci risentiamo fra sei mesi e l’incentivo trasformato in bancomat (sconto il bonus, prendo i soldi e scappo) continuerà a funzionare anche se a ritmo leggermente ridotto (si parla di passare al 90 per cento, ma sono ancora ipotesi).
Il desiderio dei desideri è più che mai un bilancio cornucopia appoggiato da una banca centrale che stampa moneta. Non è una pulsione nuova. Mefistofele nel Faust di Goethe lo suggeriva all’imperatore affamato di denaro. Ora che comincia la discussione sulla prossima legge di bilancio si farà sentire di nuovo la mefistofelica coppia leghista Borghi&bagnai, l’uno al Senato l’altro alla Camera dei deputati. Aumentare il denaro in circolazione sembra del tutto inattuale visto che in questi anni le zecche hanno funzionato come mai prima. Di liquidità ce n’è persino troppa, il problema è che non trova abbastanza impieghi produttivi né in Italia né nel resto d’europa. Inoltre la Banca d’italia ha le mani legate dall’euro. Nel 2018 B&B avevano congegnato un meccanismo di uscita dal sistema monetario europeo in modo da non avere più limiti all’espansione del debito pubblico perché, tanto, nessuno lo pagherà mai (questa tradotta in pillole è la cosiddetta nuova teoria monetaria). Oggi di tornare alla lira non si parla, ma ci sono mezzi più subdoli, per esempio spingere la Banca centrale e le banche ordinarie a comprare altri titoli in nome dell’interesse nazionale.
Dal 1981 in poi, quando è stato introdotto il cosiddetto divorzio, la Banca d’italia non acquista più i buoni del Tesoro invenduti. Ma attenzione, anche prima non era un obbligo di legge come spesso si sostiene. Lo ha ricordato Ignazio Visco nella sua “Lezione Ugo La Malfa” dedicata all’inflazione e alla politica monetaria. Era un “impegno unilaterale”, il governatore della Banca d’italia cita l’espressione usata nel 1974 da Guido Carli il quale ricordava che quell’impegno era diventato necessario vista “l’assenza di un’adeguata politica di bilancio e l’incapacità politica di imporre una stretta ai consumi”. Non ottemperare a questo impegno sarebbe stato un “atto sedizioso”, dichiarò Carli. Oggi la Banca d’italia è piena di titoli pubblici per conto della Banca centrale europea: poco più di 287 miliardi di euro. E’ avvenuto grazie al quantitative easing introdotto da Mario Draghi dieci anni fa. Da gennaio la Bce comincerà un quantitative tightening, insomma una stretta che consiste nel non acquistare altri bond e cominciare a vendere quelli in cassaforte. Ciò vuol dire che l’italia perderà il salvagente monetario e dovrà piazzare i suoi Btp solo sul mercato. Sia Visco sia Draghi hanno già invitato Christine Lagarde a procedere con cautela. Lo stesso Joachim Nagel, presidente della Bundesbank, ha detto che bisogna muoversi con i piedi di piombo anche se la Germania non rischia di trovarsi con i suoi Bund invenduti. Chi nell’attuale governo ha la testa sulle spalle pattina su un ghiaccio sottile e si rende conto dei pericoli. Chi vuol montare una nuova campagna anti-europea affila i coltelli. Sentiamo già il ron ron: non c’è spazio per tasse e pensioni perché la Bce gira la vite, i paesi del nord ci vogliono male e se ne approfittano, dunque non basta esercitare una discreta pressione e chiedere una tregua con le buone maniere. Ci vuole altro, ci vuole uno strappo. Tornare indietro all’impegno unilaterale, a prima del divorzio, sembra impossibile. Ma se lo spread aumenta? Se le perfide banche francesi e tedesche cominciano a vendere i titoli italiani in portafoglio? Potranno le banche italiana e la banca delle banche compiere un atto sedizioso? Sono speculazioni, o meglio timori. Visco nella sua lezione ha dedicato ampio spazio a questo tema cruciale. E Giorgio La Malfa ha ricordato quando venne bacchettato da suo padre, perché in un dotto articolo aveva criticato la politica di Carli. Eppure lo aveva scritto insieme a Franco Modigliani che avrebbe vinto il premio Nobel per l’economia. Ugo La Malfa ammoniva il figlio e “quel tal Modigliani” in primo luogo perché non bisogna parlar male della Banca d’italia (“Sono le poche persone per bene che rimangono in questo nostro paese”, disse), ma soprattutto perché le responsabilità sono sempre politiche: “Se volevamo attaccare qualcuno dovevamo attaccare il governo e chi ne aveva fatto parte”. Oggi l’atto sedizioso sarebbe, al contrario, disobbedire alle norme che regolano la moneta comune. Ma a quale soglia si fermerà il primato della politica filo conduttore del sovran-populismo? Non risultano finora pressioni in tal senso, tuttavia a pensar male spesso ci si azzecca.
Quale genio può uscire dal pozzo e chi è disposto a giocarsi un occhio in nome della conoscenza e della verità? La destra ha seminato tempesta e ne raccoglie i frutti. Tutti chiedono il rispetto delle mille promesse, qui e ora. La sinistra non ha fatto di meglio. Non è un segreto che Enrico Letta sia rimasto l’unico draghiano nel Pd, mentre l’agenda Draghi, diventata la bandiera della odiata coppia di “rinnegati”, cioè Carlo Calenda e Matteo Renzi, veniva ridimensionata, persino dileggiata. Buona parte dei piddini, spinti dalle correnti tailandesi e massimaliste, plaudevano a Giuseppe Conte che dopo aver lasciato nelle urne sei milioni e trecentomila voti brindava perché era Draghi ad aver perso, e si comportava da vincitore sostenuto da buona parte del circo mediatico. Cosa poteva fare l’economista che in due anni ha consentito all’italia di crescere oltre undici punti percentuali come mai era accaduto nell’ultimo trentennio? Dopo aver dispensato qualche consiglio nel passare il testimone, ha chiuso la sua agenda e spento il telefonino (almeno uno dei suoi). Nessuno è profeta in patria, tanto meno dove non c’è patria, ma solo fazione.
A forza di desideri repressi anche una nazione (usiamo il termine tornato in voga) finisce dallo psicoanalista. C’è qualcuno che può soddisfare le proprie voglie senza gettarsi in avventure impossibili? Rispondere a questa domanda fa bene a tutti, anche a quell’opposizione che non vuole consumarsi tra le piazze e l’aventino. Si potrebbe indicare un semplice precetto: meglio meno, ma meglio; se non fosse che lo scrisse Lenin nel 1923. Travolto dal fallimento delle nazionalizzazioni e giunto agli ultimi mesi di vita, il capo bolscevico invitava a ridurre la burocrazia, a non perdere la fiducia delle masse, a cominciare dai detestati contadini, e studiare le esperienze estere, in particolare Inghilterra e Germania. Insomma, anche i comunisti alla fine si arrendono al buon senso. Quando lo hanno sfidato, sono stati travolti. Meglio meno, ma meglio, è una lezione della storia.

Fonte: Il Foglio