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Il Pnrr e la digitalizzazione: quali politiche per il Mezzogiorno?

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di Enzo Chilelli – fonte “Buonasera Sud”*

La “questione del Sud” ha occupato la politica economica fin dall’Unità d’Italia. I “piemontesi” pensavano che fosse sufficiente, ma non fu così, successivamente il fascismo fece poco. Nel dopoguerra fu la volta della Cassa del Mezzogiorno, questa produsse alcuni risultati, ma lo spreco delle risorse fu elevato e il divario tra Nord e Sud continuò ad aumentare.
Anche le “Nuove Politiche Regionali” (NPR), messe a punto nel 1998 dal ministro del Tesoro dell’epoca, Carlo Azeglio Ciampi, nate come straordinario per superare il divario nord-sud, furono messe in crisi dal sistema clientelare che ha trasformato il connotato strategico e il senso di missione in semplici misure assistenziali.
Poi, l’adesione al trattato di Maastricht impose una revisione del modo di gestione della spesa pubblica che, da allora, non avrebbe più dovuto contare su disavanzi crescenti ammortizzati dall’inflazione.
Ma questo non è accaduto ed oggi, a distanza di oltre vent’anni, i problemi del Mezzogiorno rimangono in buona parte irrisolti. È necessario chiedersi in che misura ciò sia il risultato di politiche pubbliche inadeguate, sia di quelle place based (ovvero specificatamente dedicate allo sviluppo del Sud) sia di quelle nazionali con effetti differenziati sul territorio.
Deputati, Senato della Repubblica, Bankitalia, si susseguono i seguenti concetti:
• Uno dei problemi rilevanti, di competenza dello Stato, è la criminalità organizzata che, in particolare al Sud, altera le condizioni di concorrenza, si infiltra nelle amministrazioni pubbliche, accresce così i costi per la collettività, favorisce il diffondersi di una cultura dell’illegalità, ostacola la formazione di capitale sociale e di fiducia reciproca tra cittadini e tra cittadini e istituzioni.
• E’ necessario maggiore impegno per elevare la qualità della PA con l’introduzione della meritocrazia e l’identificazione per le amministrazioni di obiettivi di servizio ben definiti e misurati da soggetti esterni, ma rimane in generale un problema di rafforzamento delle regole che non può che essere assicurato che da una buona amministrazione pubblica e questa, nel Mezzogiorno, ancora non c’è. Ma siamo proprio sicuri che sia così? A me è capitato spesso di trovare alti dirigenti di aziende pubbliche e private, in italia ed all’estero, nati nel nostro mezzogiorno e realizzatisi ad altre latitudini o longitudini. Penso quindi che il problema non risieda nella qualità delle persone né nella loro formazione ma prevalentemente da una carenza infrastrutturale delle regioni del Mezzogiorno che parte da ferrovie, strade e porti, passa per le infrastrutture scolastiche ed arriva drammaticamente alle infrastrutture digitali.
In sintesi, la sfida del Sud è la più difficile di tutta la nostra storia unitaria, ma non può essere considerata una causa persa, soprattutto oggi con diversi piani di azione che immettono nel sistema paese ingenti quantità di risorse economiche. In particolare sul tema del digitale sono più di vent’anni che in Italia viene annunciata la rivoluzione per la digitalizzazione del Paese, ed in numerose occasioni sono state buttate quantità enormi di soldi per attività assolutamente inutili.
Ricordiamo ancora i numerosi annunci dell’imminenza di un’amministrazione pubblica completamente digitale, senza carta, mentre oggi nella maggior parte dei casi troviamo la vecchia burocrazia cartacea, con sopra un nuovo strato di digitale burocratizzato. Ovvero è spesso lontano da quel cheoggi dovrebbe servire il digitale, ovvero semplificare e ottenere le cose con un click senza burocrazia inutile; perché oggi si può fare, senza domande, richieste, moduli in cui diamo informazioni che la PA ha già, e cosi via…
Come già detto il PNRR è un’occasione unica, ma i soldi non cambieranno nulla se non si lavora sulla cultura e le competenze e, soprattutto, sulla semplificazione delle procedure. Ben venga quindi la diffusione della banda larga, che i più useranno per navigare meglio e vedere qualche film in streaming, ma se nelle attività quotidiane il modulo cartaceo viene sostituito da un modulo PDF che mi dovrò riempire e consegnare al massimo ho risparmiato il tempo di andarlo a prendere ma mi resterà l’incombenza i tutto il resto dell’iter burocratico.
Digitalizzare il Paese, soprattutto la Pubblica Amministrazione, vuol dire invece perseguire ciò che è già stato fatto nel settore dei viaggi o in quello bancario ed assicurativo, ovvero non dover più andare presso gli sportelli e poter gestire qualunque pratica comodamente da casa ivi compresi i pagamenti. Vuol dire eliminare completamente pratiche inutili, quali sono oggi i certificati, vuol dire mettere in condizione un’impresa di partecipare ad una gara pubblica senza presentare montagne di documenti perché la documentazione necessaria è già conservata in qualche luogo ed ha validità di un anno, vuol dire che le persone o le aziende escluse dalle gare pubbliche, per qualunque motivo, sono già censite in un database pubblico.
Il nodo gordiano credo che abbia al centro la carenza di competenze digitali, ma non nel cittadino utente che oggi è spesso in grado di fare anche cose complesse sui social: usare hashtag, applicare filtri, taggare persone, creare account, gestire le impostazioni della privacy e così via, ma dei progettisti che frequentemente creano questi servizi in modo scarsamente “usabile” perché pensati e realizzati ad immagine e somiglianza delle vecchie procedure burocratiche. Questi progettisti sono spesso cresciuti professionalmente e vivono quotidianamente in un mondo in cui la sua cultura di base si basa sul principio che siano i cittadini che devono a adeguarsi alla burocrazia della PA. È su questo punto che bisogna intervenire in modo deciso, le procedure della PA si “devono” semplificare a favore di cittadini ed imprese grazie alla velocità e alle caratteristiche del digitale.
Tuttavia negli interventi di digitalizzazione italici c’è una costante fin dai tempi dei primi “bandi egov” del Ministro Stanca che vale fino al PNRR di oggi: il focus è sempre sul front-office e mai sul back-office. Ovviamente per back intendo proprio come lavorano gli uffici quotidianamente, le applicazioni che usano, come sono (dis)organizzati i processi dentro le PA e tra PA.
Ad oggi, in molti casi, nelle PA il dato non è affatto gestito (o non è gestito correttamente). Che fine ha fatto la “strategia nazionale dati” prevista dall’art.50-ter del CAD? Noto che spesso si spendono più energie nel fare proclami su quanto è stato digitalizzato il paese e poche
sul farlo davvero, ma questo per l’Italia è un momento critico, per il suo futuro, per la digitalizzazione ed allora continuo da molti anni a pormi delle domande: Le aspirazioni della piattaforma dati PDND subiranno l’effetto “garbage in garbage out” con conferimenti obbligatori di dataset pieni di dati inservibili? Come si devono preparare le singole amministrazioni sul tema dati? Il catasto o l’elenco dei codici CAP saranno mai liberati come dataset in open data? La tessera sanitaria è stata appena ridisegnata su plastica: come mai non viene dematerializzata dentro l’app IO insieme alla patente di guida? Come arriveremo ad un “fascicolo digitale del fabbricato” e a digitalizzare sterminati archivi cartacei delle pratiche pregresse negli uffici edilizia che non sanno
come rispondere alle richieste di accesso fatte per via del bonus 110%? Come tracceremo le pratiche “in stile amazon” se tale dato non è presente in un sistema informativo?
Mi accorgo di avere troppe domande e poche risposte ma la speranza è che il PNRR possa almeno iniziare a risolvere o incidere sui problemi di sburocratizzazione e digitalizzazione irrisolti nel Paese da oltre 40 anni. Fortunatamente una parte dei soldi è destinata alla diffusione di cultura digitale a tutti i livelli. Ma per evitare di commettere gli stessi errori del passato tutti vorremmo che questa volta fossero spesi adeguatamente, dando importanza alla divulgazione digitale. Ma cosa significa divulgazione? Se verranno spesi in convegni, eventi tra esperti, task force, mille cabine di regia diverse, e la realizzazione di altri siti da milioni di euro che reinventano quello che esiste già, probabilmente le cose non cambieranno.
Il Ministro della PA ha annunciato l’assunzione di 1000 professionisti a supporto delle amministrazioni e per farli ha creato un portale (che già è una definizione desueta e anacronistica di un sito ma piace tanto alla PA), che è stato definito dal ministro una sorta di LinkedIn italiano. Ma LinkedIn esiste già. È un sito su cui il 100% degli esperti che si cercano ha un profilo ricco di informazioni.

Se si cercano eccellenze forse bisognerebbe reclutarle attraverso cacciatori di teste, o se le risorse necessarie sono tante, come pare in questo caso, dovrebbe essere resa semplice la candidatura. Purtroppo, l’ufficio complicazioni
cose semplici deve averci messo lo zampino anche questa volta. Sul sito bisogna compilare una scheda per ogni lavoro che si è fatto in passato e non è possibile importare tutto direttamente da LinkedIn. Come inizio, non ci siamo.
Se poi pensiamo che in Inghilterra la transizione digitale della PA ha fatto sparire gli sportelli e la maggior parte degli uffici pubblici, con una drastica riduzione o ricollocamento del personale, che per ragioni anche solo intuitive, non sono più necessarie in quanto le procedure digitali fanno in automatico quello che una volta facevamo le persone. E dei 40 miliardi, solo 250 milioni verranno spesi per le competenze digitali degli italiani, che è un altro punto critico direi esiziale per la competitività del paese. I soldi verranno spesi mettendo in campo iniziative di formazione digitale, per il superamento del digital divide. L’obiettivo è quello di raggiungere

il target previsto dall’Europa, con il 70% di cittadini digitalmente abili entro il 2026. Anche qui il “come” farà la differenza. Se pretenderemo di alfabetizzarli attraverso un sito, che probabilmente quel pubblico non è in grado di raggiungere, la vedo male. Se lo faremo con mezzi di comunicazione di massa magari sarà la strada giusta, ma – anche in questo caso – è il come che farà la differenza.

Un programma noioso, la sera tardi su una rete secondaria, non avrà la stessa efficacia di contenuti di infotainment nella fascia in cui gli, come dire, gli analogici, sono davanti al televisore. Idem con gli altri mezzi di comunicazione. Se non saranno mainstream saranno poco efficaci sulla fascia che ne ha invece
più bisogno.
E poi i tempi. In quali fasi saranno spesi questi soldi? Chi avrà accesso? Solo le solite grandi aziende o anche le piccole e medie eccellenze digitali che abbiamo nel nostro paese, in cui gli startupper pieni di energia e capacità non mancano? Di sicuro da questi primi mesi di attuazione emerge che con il PNRR ci sarà una forte spinta alla centralizzazione dei processi di digitalizzazione e di innovazione nel settore pubblico in Italia.
Tutto sembra portare verso soluzioni standard “one size fit all” costruite per rispondere primariamente agli indicatori di realizzazione del PNRR, indicatori che, in molti casi, non sembrano solidi: tanto per fare degli esempi parliamo di cose come “numero di CED negli ospedali DEA”… ebbene sì, c’è proprio scritto CED nell’accordo con l’Europa… “numero di enti migrati al cloud”… basta un mero lift-and-shift? Ma il cloud nazionale conterrà tutti i dati o le regioni si doteranno di un sistema proprio? Comuni, Provincie,
municipalizzate cosa faranno? E con quali costi di esercizio finali?… “numero di API pubblicate” …con quali dati? usate da chi?
Sono indicatori che sicuramente permetteranno di rendicontare in Europa, ma se ci facciamo guidare solo da questi indicatori, in una logica di “burocrazia difensiva” ormai così consueta nelle PA, rischiamo di orientare tutta la realizzazione in una direzione senza effettivo ritorno dell’investimento del PNRR. Ma bisogna sempre ricordare che i fondi del PNRR sono, in gran parte, debito.
Con un approccio centralizzato/standardizzato sarà davvero ben poco praticabile parlare nei prossimi anni di “open innovation” nelle PA (nonostante gli infiniti dibattiti degli anni passati). Non sarà praticabile perché in primis permangono norme che non aiutano certo gli enti ad approcciare startup o a fare sperimentazioni/contaminazioni (le regole su appalti, budgeting e rendicontazione non accettano il concetto stesso di rischio e di apertura)… ma come secondo fattore avverso si aggiunge oggi il fatto che il PNRR spinge per soluzioni standard e “chiavi in mano” per la quasi totalità dei fondi stanziati.
Soluzioni standard che saranno prodotte (per forza di cose) da grandi player/RTI scelti tramite Accordi quadro Consip. Il che ridurrà ulteriormente il numero di fornitori di IT nel settore pubblico, numero che era già fin troppo
ristretto.
La nostra Costituzione dice che lo Stato ha il compito di standardizzare i dati, non i sistemi informativi in toto. E come salvaguarderemo concorrenza e sussidiarietà? Ricordo che il governo UK inventò il “team digitale” nel 2010 proprio per uscire dai grossi contratti multimiliardari che tanti danni avevano fatto nel decennio precedente nel settore pubblico inglese. Uno degli slogan nati dal team digitale inglese è “finanziare team non progetti”. Noi in Italia non solo non costruiamo team (si continua a non investire in assunzioni di personale e i vincoli organizzativi e di budgeting/rendicontazione rendono improbabile lavorare davvero per team multi-disciplinari) ma ormai non si parla più neanche di progetti (project management, questo sconosciuto) e, soprattutto, non si
parla più di “ontologie e vocabolari controllati della pubblica amministrazione” che sarebbero l’unico modo reale per rendere il dato nativamente digitale e garantire la sua interoperabilità a livello nazionale ed europeo, ma senza
impostare il lavoro per team e senza progetti ci resteranno solo soluzioni da adottare “plug-and-play”. Viceversa, già nel 2017 Deloitte metteva in luce che le organizzazioni moderne hanno la necessità di lavorare per team. E a maggior ragione dopo il covid non possiamo inseguire modelli gerarchici sia nei singoli enti che per la governance complessiva dell’innovazione.
Infine, alcune risorse saranno dedicate all’innovazione nel sistema produttivo a partire dalla transizione 4.0. Termine ormai diventato una buzzword che contiene tutto e niente. I primi approcci europei a questo tema sono del 2008, allora si chiamava “impresa 4.0” e anticipava i tempi della transizione delle imprese verso il digitale. A distanza di quasi 15 anni siamo ancora fermi ai convegni in cui si parla di impresa 4.0 al futuro, invece che al passato o quanto meno al presente. Per cui, dare soldi a pioggia alle imprese da destinare all’innovazione dei processi significa probabilmente buttarli se vengono spesi nella direzione sbagliata, acquistando prodotti o servizi non più adeguati alle esigenze del presente. Ed è un rischio molto concreto quando all’interno delle aziende manca la cultura digitale adeguata. Se non si intraprende una strada che parte prima dalla cultura della trasformazione digitale, ma adeguata al 2022, su come oggi le aziende devono operare per renderla efficiente e proficua i soldi verranno sprecati.
Altrimenti il rischio è che l’Italia digitale diventi come la nave di Teseo. Si narra che la nave in legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco Teseo fosse conservata intatta nel corso degli anni, sostituendone le parti che via via si deterioravano. Giunse quindi un momento in cui tutte le parti usate in origine per costruirla erano state sostituite, benché la nave stessa conservasse esattamente la sua forma originaria. Ragionando su tale situazione (la nave è

stata completamente sostituita, ma allo stesso tempo la nave è rimasta la nave di Teseo), la questione che ci si può porre è: la nave di Teseo si è conservata oppure no? Ovvero: l’entità (la nave), modificata nella sostanza ma senza variazioni nella forma, è ancora proprio la stessa entità? O le somiglia soltanto? Cioè, quando gattopardianamente cambieremo tutto, non è che ritorneremo al punto di prima?
Per evitarlo suggerisco un modello che potrebbe funzionare, ovvero legare la totalità dello stipendio accessorio di ogni dirigente pubblico ad un obiettivo prioritario (fermi restando gli altri), la semplificazione verso cittadini ed imprese di almeno una procedura l’anno. A decidere se l’obiettivo è stato raggiunto le associazioni di categoria interessate alla semplificazione.

Bibliografia:
Si ringraziano del contributo Marco Camisani Calzolari: tecnologo, scrittore, divulgatore, esperto e docente di comunicazione digitale e Carlo Mochi Sismondi: presidente FPA

* organo di “Mezzogiorno Federato” edizione di venerdì 22 aprile 2022