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Il pericolo delle Borse asiatiche

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La strada del futuro, più o meno vicino, non può essere lastricata solo di buone intenzioni. Pechino dovrebbe porre più attenzione, pur se l’apparato autocrate e dittatoriale che in atto governa la Cina difficilmente sembra in grado di poterlo fare, alle gravi dissonanze esistenti in campo sociale all’interno dei propri confini

di Augusto Lucchese

 

In un editoriale di qualche anno fa, a firma Marco Caprotti, su “morningstar.it”, l’Autore affermava che “La frenata del colosso asiatico preoccupa i listini, ma non è un pericolo per le economie sviluppate. I problemi potrebbero arrivare in seguito”. Era il gennaio del 2016 e l’affermazione traeva spunto dallo scossone tellurico – epicentro Borse di Shanghai e Shenzen – che interessava in quel momento il mondo economico-finanziario del pur sempre misterioso oriente cinese. Il “seguito” è adesso, ed è chiaro che, in relazione all’amorfa struttura economica dell’enorme Paese, la Cina potrebbe ancora divenire, nel tempo, fonte di una spaventosa e debilitante “catastrofe” finanziaria globale.

Come spesso accade nel variegato mondo dei media, l’informazione elargita ai lettori è tutt’altro che esauriente e rispondente. La battuta d’arresto dell’economia cinese all’inizio del 2016 non fu una semplice “frenata”, momentanea o di routine, bensì un pericoloso sbandamento “del colosso asiatico”. Sbandamento che, come dimostrano le recenti “bolle” nel mercato immobiliare cinese, in prospettiva e ove non si riesca a controllarne duraturamente cause ed effetti, potrebbe portare ad una gigantesca frana valutaria e finanziaria dai connotati globali. I “problemi” non sono di là da venire ma sono già pesantemente presenti in seno alle “economie sviluppate”, talvolta autentici colossi dai piedi d’argilla. Una crisi finanziaria cinese diverrebbe ben più pericolosa di quella datata 2008 (made in USA), sotto molti aspetti ancora in corso al momento dello scoppio, anch’esso di marca cinese, della pandemia di Covid 19.

Un ruolo di evidente criticità nella rapida propagazione delle crisi finanziarie nel mercato globale è quello svolto dai media, che non sono solamente colpevoli di diffondere a cuor leggero parecchio “allarmismo”. Spesso e volentieri sono rei di connivenza con i potentati mondiali, nella misura in cui utilizzano, venendo meno alla loro funzione, le medesime regole edonistiche prevalentemente volte al profitto, non solo economico. Non trattasi, quindi, di semplice “professione di pessimismo” – più o meno esagerato – bensì della colpevole tendenza a strumentalizzare notizie e accadimenti (magari amplificandone o distorcendone la portata) per riempire alla meno peggio le pagine degli organi d’informazione o gli spazi dei prezzolati “show” televisivi, telegiornali compresi.

La discutibile tendenza a globalizzare anche i mercati finanziari (leggi Borse), ha portato al contagio delle peculiari negatività o difficoltà di ciascun sistema economico, quale, ad esempio, quello dell’immensa Cina ex marxista ed ex maoista. Fra i settori d’investimento più sensibili, in particolare, sono i cosiddetti “fondi d’investimento o del risparmio gestito” i quali, come evidente, sono proliferati a dismisura e appaiono poco o nulla attenzionati da un serio controllo degli organi di vigilanza, pur essendo inseriti negli ufficiali circuiti bancari dai quali spesso impropriamente promanano

Nella crisi del 2016, una larga fascia della dirigenza politica dominante in Cina dimostrò la propria discutibile preparazione tecnico-professionale-economica, confermata da due intempestive e consecutive svalutazioni dello yuan. Per altro verso, la liquidità immessa sul mercato dalla Banca di Stato Cinese si rivelò del tutto insufficiente e neppure minimamente raggiunse lo scopo di evitare i reiterati contraccolpi ribassisti delle Borse asiatiche e, quindi, il fenomeno del panic selling.

La strada del futuro, più o meno vicino, non può essere lastricata solo di buone intenzioni. Pechino dovrebbe porre più attenzione, pur se l’apparato autocrate e dittatoriale che in atto governa la Cina difficilmente sembra in grado di poterlo fare, alle gravi dissonanze esistenti in campo sociale all’interno dei propri confini. A fronte di una popolazione che supera 1 miliardo e 400 milioni di individui, la grande ricchezza è accentrata nelle mani di poche centinaia di migliaia di capitalisti della peggior razza, il variabile benessere è circoscritto ad una limitata fascia di popolazione (fra cui parecchi milioni di dipendenti dello Stato, la straripante massa dei militari, i pro-consoli locali e il loro entourage, la copiosa classe politica che siede nei palazzi del potere) mentre l’indigenza, la povertà e talvolta la miseria sono appannaggio, più o meno diffusamente, di tutte le altre classi sociali.

Una Nazione ancorata al retaggio di ideologie vetero comuniste, piuttosto che portare avanti, in prevalenza, l’immagine egemonica della grande potenza mondiale legata alla forza militare o al fumoso PIL, dovrebbe puntare al benessere collettivo della propria gente, al miglioramento del potere d’acquisto dei lavoratori, ad una più equa distribuzione della ricchezza, allo sviluppo economico razionale, non di facciata o speculativo, alla repressione dello sfruttamento quasi schiavistico di larghi strati di popolazione. Quest’ultimo fenomeno sembra essere tuttora largamente presente nelle desolate lande degli immensi territori dell’entroterra ove vive, talvolta d’espedienti, una primordiale e misera società di uomini emarginati e mal retribuiti, operai, artigiani o agricoltori che siano.

Elevare e livellare il tenore di vita collettivo e incrementare i consumi interni potrebbe essere il toccasana per fronteggiare i pericoli di stagnazione produttiva. Ciò potrebbe divenire il vanto della classe dirigente cinese di Xi Jinping. Chissà se i burocrati e i timonieri dell’apparato riusciranno mai a comprenderlo.