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Il mio Natale… la grande famiglia

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di Franco La Magna

Credo di non aver mai attribuito un significato religioso al Natale. Anche da bambino. Soprattutto da bambino, quando dinnanzi al presepe fatto con i pastori di terracotta ascoltavo incantato il suono stridulo della cornamusa che lo zampognaro di Bronte o di Maletto produceva, sudato e rosso in viso, seduto sulla piccola sedia impagliata, dopo aver gonfiato fino allo spasimo l’otre di pelle di pecora, saltellando rapido e sicuro con le grosse dita da contadino sulle canne tirate a lucido. Anche quando la mamma, compunta, per mondarsi da chissà quali peccati – accanto a papà un po’ svagato, che puntualmente alla fine della “novena” gridava come svegliandosi da un torpore coatto “viva Gesù Bambino” – si faceva il segno della croce davanti a quelle statuine variopinte, i magi, i cammelli, i pastori, Maria e Giuseppe con al centro il “bambinello”, io continuavo a pensare ad un gioco, del quale solo in parte controllavo il meccanismo, ma pur sempre un gioco, fatto di ritualità antica, di certezza d’affetti, di festa grande in famiglia, come di tempo immobile indifferente al lento declinare degli anni.

Per tutti gli anni cinquanta quel rito immutabile, fermo, nelle sue scansioni programmatiche, cominciava puntuale a metà dicembre, quando un po’ tutti allestivamo in camera da pranzo un povero presepio (cui più tardi si sarebbe aggiunto l’alberello), finché tre o quattro giorni prima della vigilia un fitto intreccio di telefonate tra la zia Olga, zia Pina e la mamma (zia Pippa) – le grandi cuoche della famiglia cui spettava il compito di preparare il cenone – annunciava solennemente la vigilia. Il cenone era senz’altro il clou della festa. Fatto di pietanze “fredde”, quelle da cucinare il giorno prima e poi scaldare, impegnava le cuoche con il gravame delle preparazioni assegnate di comune accordo a seconda delle “specializzazioni” conquistate sul campo, finché tutte insieme ritrovatesi qualche ora prima della mezzanotte del 24 dicembre completavano le portate di quel “pantagruelico” banchetto.

Così, urtandosi nella piccola cucina, una preparava i carciofi ripieni di mollica e formaggio, l’altra scaldava i cavolfiori “affogati” e il falsomagro alla siciliana, una cucinava il pesce fritto (non mancava mai lo “spada”), i calamari e le anguille e via via proseguendo con le insalate verdi, le “scacciate” con la tuma, le olive nere e le acciughe e l’immancabile polipo che all’inizio del cenone lo zio Ercole puntualmente, come offrendo chissà quali tesori, imboccava a piccoli pezzi a tutta la compagnoneria dei commensali, dispensando con magica parsimonia quasi una benedizione apotropaica, un’ostia laica, assumendo il ruolo sacerdotale di prologo liturgico del banchetto.

La sera del 24, generalmente dopo l’imbrunire, la “600” blu di zio Umberto infilava il cortile aperto delle case popolari di via Puglia e dopo aver lungamente strombazzato (i soliti tre lunghi colpi di clakson, schiamazzo convenzionale della “famiglia”) andava a fermarsi proprio sotto il portoncino di legno, al numero 44/E. Lo zio Umberto, talvolta richiamandoci anche fischiando (altro segnale “segreto”), dopo aver spento il motore della piccola utilitaria ci aspettava fuori dall’auto. Noi, “appiedati”, non avevamo la macchina perché in famiglia papà (zio Pippo) era l’unico a lavorare nell’allora per me lontanissimo aeroporto civile di “Fontanarossa” e uno stipendio da dipendente del Ministero della Difesa doveva bastare a sfamare quattro bocche, la mamma, io e Gianni, mio fratello più grande. Mentre zio Umberto, battezzato dagli avventori della sala giochi che gestiva in via Etnea con epiteto innominabile, poteva agevolmente permettersi l’auto, visto che oltre al suo guadagno disponeva in famiglia dello stipendio della zia Pina – insegnante elementare in una scuola di Barriera del Bosco, quasi sotto casa – che a Natale sfoggiava ori e permanente.

Dopo aver sistemato alla meglio le pietanze, tutte rigorosamente provenienti dalla “pescheria” (per papà luogo “sacrale” e soprattutto economico degli acquisti natalizi, ma anche di quelli d’ogni giorno), nella “600” a due porte di zio Umberto ci rintanavamo in otto. Zia Pina che teneva sulle ginocchia Enrico, il più piccolo e riccioluto dei due figli, si rincantucciava con il suo peso non proprio indifferente in un angolo posteriore dell’utilitaria, mentre mio fratello Gianni magro magro e mio cugino Maurizio (l’altro figlio di zio Umberto) nerissimo, tracagnottello e rubicondo stavano in mezzo, contendendosi a turno lo schienale dell’auto. La mamma sedeva nell’angolo opposto a quello della zia Pina. Infine io e papà andavamo sul sedile anteriore (per questo, sulle sue ginocchia, mi sentivo una specie di privilegiato), con zio Umberto che guidava fumando o canticchiava o ciarlava con la sua voce arrochita.

Il viaggio da Canalicchio a Nesima Superiore era per me la prima avventura della serata. Soprattutto quando pioveva, giungere fin da zia Olga (dove puntualmente si festeggiava il Natale e spesso anche Capodanno, ma stavolta anche con gli amici) significava attraversare il lungo tratto pianeggiante, solcato dalle antiche lave dell’Etna, delle “sciare di Curia”. Scure, dalle sagome mostruose, m’impaurivano soprattutto quando il temporale saettava su quel deserto pietroso e sinistro abbacinanti lampi improvvisi, disvelandone per un attimo l’impressionante distesa sotto la quale immaginavo tenebrose presenze, crogiolandomi però nel contempo in una gioia inespressa e rattenuta, quella d’essere protetto come in un guscio dalle forti braccia di papà che, dentro quel trabiccolo di metallo, rideva con lo zio Umberto, aggiungendo nel trambusto dell’abitacolo come una sensazione di coraggio, di certezza che nulla avrebbe turbato il nostro attraversamento dello Stige verso la casa di Nesima, quasi una prova necessaria per noi errabondi argonauti di Natale.

E finalmente ecco la piccola casa dalle persiane verdi, con il balcone incassato alla facciata pieno di vasi e vecchie masserizie. Noi bambini, correvamo avanti per scalare di corsa le due piccole rampe di gradini di marmo bianco e subito nel minuscolo ingresso io mi fermavo sempre dinnanzi ad un alberello stracolmo d’addobbi, con la neve a velo che illuminata dall’intermittenza creava fantastici riflessi colorati, dietro cui vedevo con la mente chissà quali mondi misteriosi e irraggiungibili, abitati da gnomi e da folletti condannati ad una vita invisibile agli uomini, ma che forse per un attimo, io e solo io, avrei potuto incontrare in quella magica notte della vigilia.

A volte, quando si arrivava più tardi, Zio Carmelino, il fotografo, l’altro dei tre fratelli di papà stava già ad aspettarci (zio Gianni, anche lui fotografo, al contrario del resto della famiglia era rimasto in Africa, nel Kenya, con la moglie e i figli e sarebbe rientrato in Italia, a Verona, solo molti anni dopo, cacciato come tanti dalla rivoluzione, lui fotografo di corte del sovrano kenyota). A zio Carmelino, lo scapolone impenitente della famiglia (ma si sarebbe sposato negli anni sessanta) spettava il compito di accompagnare la nonna Anna e la zia Marietta (la mamma di mio padre e la sorella) con le quali conviveva, entrambe immancabilmente maleodoranti di tabacco da naso che continuamente infilavano nelle nari per starnutire e, come dicevano loro, “scaricare”. Talché baciandole inevitabilmente una polvere marrone, finissima e piccante, s’appiccicava sui maglioni o sulle guance lasciando a lungo sul malcapitato l’odore intenso di quella mistura infernale.

Così a quel punto la “famiglia”, ricomposta nella piccola casa di Nesima, era al completo; se si esclude, però, il ramo ricco, quello dello zio “colonnello” (il fratello di nonno Gianni) e della zia Maria, che solo raramente si sarebbe unito ai festeggiamenti (ricordo solo un Natale a Mascalucia nella villa con piscina del figlio del “colonnello” Giannattilio, forse negli anni ’60, usata credo più per mostrare un clamoroso status symbol d’acquisito benessere e d’escalation sociale che tiepidi e dubbi affetti verso il resto del parentado). Comunque, come voleva la tradizione, eccoci tutti riuniti: Zia Olga, sempre sorridente, dietro gli spessi occhiali cerchiati affetta da terribile miopia e irrisolvibili problemi agli occhi e zio Ercole, “collega” di papà in aeroporto ma soprattutto il “maestro”, il pianista della Catania degli “anni ruggenti”, delle operette e degli ultimi cascami dell’avanspettacolo, fumatore accanito e gran bevitore, esteta mancato e musicista apprezzato,  padre e marito. I loro figli: i miei cugini “grandi”, Nuccio, Gianni e Lucia, già invischiati tra amorazzi adolescenziali e represse rivendicazioni d’autonomia ed i “piccoli”, a me – scricciolino glabro di pochi anni – anagraficamente più vicini, la dolce Anna con i capelli a caschetto, Ezio già con gli occhiali e Renato, sempre un po’ tartagliante; poi lo zio Umberto, con la sua sempiterna raucedine e quel vizio (comune alla famiglia) d’inumidirsi sputacchiando i polpastrelli delle dita, la zia Pina ingioiellata, il biondissimo Enrico cicciotello e il grassone Maurizio. Le vecchie della famiglia: la nonna Anna e la zia Marietta, tabagiste da naso, innamorate del vino rosso dell’Etna, immancabilmente vestite di nero e lo zio Carmelino, scapolo e senza donne. Infine io, “Cicciuzzu”, come mi chiamava papà (ci avrei messo vent’anni per perdere irrimediabilmente il vezzeggiativo), Gianni, la mamma e papà, in doppiopetto grigio ma senz’auto e con una patente inutile; oltre dieci anni dopo avrebbe poi comprato finalmente una “850”, per cui fino alla fine degli anni sessanta Gianni ci avrebbe scarrozzato all’epilogo di quella stagione, per poi staccarsene per primo pian piano sicché a me, subentrato come chauffeur quando già vagheggiavo di palingenesi sociale, sarebbe toccato chiudere, negli anni ’70, gli ultimi rendez-vous  in casa di Lucia, unica erede di quella tradizione ormai per sempre seppellita, cui accompagnavo papà già in pensione ma ancora con la mamma in buona salute.

Verso le nove di sera, finalmente, apparecchiata la tavola si brindava con il vino e per due ore era un andirivieni di portate fino alla frutta (i grossi mandarini gialli, le polposissime arance della piana,  l’uva “zibibbo” dolcissima e carnosa) seguita dall’immancabile panettone, la cassata e i cannoli di ricotta, una festa barocca anche per gli occhi con i canditi variopinti sulla glassa, mezzelune di fichi e rosse ciliegione depositate come manna dal cielo in floreali motivi o le cialde croccanti da cui – come in un Eden di zucchero – straboccava il ripieno di ricotta, mostrando la neve verde dei pistacchi di Bronte, i cubetti di cioccolato fondente e i canditi sminuzzati e persi in quel melieu di delizie.

Dopo le dieci o le undici, satolli di cibarie e di dolciumi, era il momento della grande tombola con le cartelline di carta e quegli approssimati segnanumeri, ceci e lenticchie, che scivolando ad ogni sobbalzo della tavola o “mossi” dal vicino sbadato in preda all’eccitazione della vincita potenziale, costringevano il “cartaio” a gridare mille volte i numeri già usciti, la nonna e zia Marietta a tendere le orecchie parlottando e litigando con tutti in una confusione generale che rendeva interminabile quel gioco antico e irrinunciabile, per giungere alla fine i fortunati (io non ricordo d’aver mai vinto una tombola), stremati ed intontiti, a quelle poche lire delle vincite distribuite con una parsimonia esagerata in un tempo distillato al contagocce. Sicché due giri erano sufficienti per accoppare l’intera compagnia, già in buona parte avvolta in una specie di deliquio. Al massimo seguiva un “sette e mezzo” proprio come bicchiere della staffa, (ma poi, più in la nel tempo, avremmo preferito il “baccarà” ed il “mercante in fiera”) prima che il sonno avvolgesse noi piccoli in una nuvola di soporosa voluttà.

Come facessimo a dormire tutti, cugini e zii, in quella casa di Nesima è rimasto per me mistero impenetrabile. Le mamme, oltre la mezzanotte, ci sistemavano tutti dentro i letti (a coppie, a tris, la nonna e zia Marietta già dormivano) e dopo qualche scaramuccia, ultimi sprazzi di vitalità, ormai la notte santa per noi era già andata. Magari forse per qualche minuto ancora aspettavo, al fioco lume d’una lampada di poche candele, di vedere Babbo Natale o di sentire almeno il festoso scampanio delle sue renne, che credo d’aver udito fino intorno ai dieci o gli undici anni. Nel saloncino, sparecchiata la tavola, iniziava invece per papà, zio Umberto, zio Carmelino e zio Ercole, il “poker dei grandi” canonicamente impegnati fino all’alba nelle furbizie dei bluff e dei rilanci, forse spiati per un po’ dai cugini più grandi, prima che anche loro s’arrendessero al sonno di quella notte magica e incantata insieme alla mamma e alle zie che, già “doverosamente” assolte le fatiche del governo della cucina, s’erano abbandonate all’ebbrezza di una “briscola” o d’una “scopa”.

Al sorgere del sole i “grandi” stanchi e sonnolenti prendevano il posto delle donne nei letti sfatti e caldi e non raramente, consumando i resti di quel banchetto sontuoso ed aggiungendo la pasta al sugo di carne e altre nuove pietanze, si restava a pranzare tutti insieme, in un gioioso supplemento della festa (io sempre felice di giocare soprattutto con Anna, Enrico ed Ezio), per rientrare la sera del 25 dopo che i nostri genitori s’erano già organizzati per le altre serate, una (tra S. Stefano e l’Epifania) quasi sempre anche da noi, nella casa fredda di Canalicchio che si riempiva di fumo mentre il letto grande della stanza di papà e di mamma spariva sotto il peso dei cappotti.

Di quegli anni, che emergono da foto ingiallite malamente custodite in poche buste accartocciate, non resta ormai che un ricordo pallido, sfuocato, come certe giornate invernali invase da una luce lattiginosa e pesante. E il passato comune, sfuggendoci tutti quasi ci vergognassimo d’aver vissuto insieme quelle piccole incancellabili emozioni, invece di unirci continua a spingerci sempre più lontani, estranei tra gli estranei, paghi di una sorda indifferenza colata come pece nei nostri cuori silenziosi e impietriti. Infine, perfino deprivati della tomba di famiglia di Catania (ora appannaggio del solo ramo ricco) e così disuniti e dispersi anche post mortem, destinati chi in paesini accucciati all’ombra del vulcano, chi giù verso la piana o in chissà quale confusione di loculi. Così, quando ogni anno l’eterno ritorno del Natale invade strade e piazze con il suo carico strabiliante di crescente infelicità tecnologica, esposta come manna nelle vetrine stracolme di quei freddi paradisi luccicanti, raramente ritrovo nella plastica colorata dei bancomat o delle carte di credito o nel clangore assordante di una frenesia compulsiva e farisaica sprazzi di gioia antica, subito umiliata e sospinta verso gli anfratti più segreti dell’anima, che pur mi par nascondere intatta una sua malinconica felicità.

Ed ogni tanto quando in fretta ingolfato nel vortice della vita, per caso, spinto dal flusso delle auto o da impegni improvvisi e non programmati, attraverso distratto quelle strade di Nesima, giù in fondo alla circonvallazione, ormai abbagliata di luci, scomparse e vinte le nere sciare di “Curia”, inevitabilmente spingo lo sguardo verso la piccola casa popolare dalle finestre verdi e mi sembra di sentire una voce che dal fondo lontano di un passato sepolto, timida e stupefatta, sussurra lieve – come da un refolo di perduta giovinezza – d’un tempo inafferrabile, dissoltosi per sempre con tutto il suo cimitero d’ombre nei misteriosi sentieri della morte.