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Il mio Natale… attraverso una foto ingiallita

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di Ettore Minniti

Da ragazzino, avevo 10/11 anni, il mio Natale iniziava la sera del 07 dicembre. Con gli amici e compagni di scuola per le vie della città a vendere le ‘muffolette’. “Muffulette caure caure!”, “muffolette calde calde!”. Secondo la tradizione questo pane viene consumato alla vigilia della festa dell’Immacolata Concezione, ricorrenza particolarmente sentita e molto festeggiata in tutta la Sicilia, terra di antiche tradizioni popolari. La muffoletta è una morbida pagnottella rotonda di grano tenero. In dialetto siciliano, la parola muffuletta significa “pane molle e spugnoso”, aromatizzato con i semi di finocchio o di cumino, i fornai dell’isola fanno a gara per produrre le pagnottelle più morbide e fragranti.

Con il sacco in spalle e le muffollette dentro, calde calde, giravamo per i quartieri di Caltagirone, spensierati e gioiosi. Era un divertimento unico e irripetibile. Quanti scherzi tra di noi. Quando poi i compaesani le compravano era una festa. Rientrati a casa, ne mangiavamo qualcuna, quale premio per la loro vendita: il sorriso non ci mancava.

Il giorno successivo, mia madre e zia Melina preparavano le collorelle, in dialetto “i cuddureddi”, dolce tipico di Caltagirone. Fatto di una sfoglia molto fina, ben stirata, con il ripieno di vino cotto o di mandorle o di miele sono un’opera d’arte, sembrano un ricamo fatto al tombolo dalle mani esperte delle nostre massaie; belle da vedersi e buonissime da mangiarsi.

Nel pomeriggio dello stesso giorno nonna Maria mi mandava a prendere i due grandi scatoloni riposti in cantina (ero piccolo e avevo la percezione che quelle due scatole contenessero il mondo intero).

Dal primo, magicamente, usciva l’albero di Natale, tutto verde, e a seguire palline multicolori, una catena di luci scintillanti, decorazioni varie, il puntale. Pian piano che prendeva forma, i miei occhi si riempivano di meraviglia e quando si accendevano le luci era scontato il mio: “Oh! Wow!”. Era allora che mia nonna mi dava un bacio in fronte e una carezza sulla guancia.

Dall’altra scatola, venivano fuori, uno ad uno, i personaggi del Presepe: i pastori, le pecorelle, Giuseppe e Maria, l’asinello, il bue, la carta pesta, il cielo stellato, le casette, la grotta. Bambin Gesù rimaneva nella scatola rigorosamente fino al 24 notte. Il fiume fatto con la carta stagnola, le ochette nel finto lago, i pastori sembravano raccontare una storia d’altri tempi. Non mi mancava la fantasia per immaginarmi storie di vita vissuta. Sognavo ad occhi aperti.

Nei giorni a seguire, i miei genitori erano in trepidante attesa che mio fratello, studente universitario a Torino, tornasse a casa per le vacanze natalizie, e quando arrivava era festa grande per tutta la famiglia. Ogni giorno mia madre con l’aiuto di nonna sfornava le migliori pietanze per fargli assaporare profumo di casa. C’era una sana invidia, ma infondo ne beneficiavo anche io di tanta grazia.

Il giorno 24 era poi un giorno speciale. L’atmosfera era meravigliosa, incantevole, nell’aria si sentiva “odore di Natale”. Le strade e le vetrine dei negozi erano tutte illuminate. Gli zampognari che con la loro musica creavano un’atmosfera dolcissima. L’aria inebriava di odore delle caldarroste.

In casa poi un tripudio di profumi, impossibile avvicinarsi alla cucina, tutti intenti e indaffarati a preparare il cenone di Natale. Una cena spartana, senza carne, ma con il pesce, con l’immancabile capitone e baccalà. Tanta frutta secca e del buon vino per i grandi.

Dopo la cena, mio nonno Giuseppe riuniva tutti i nipoti intorno al camino, scoppiettante, e ci raccontava delle sue eroiche gesta durante il primo conflitto mondiale. Pendevamo dalle sue labbra, a bocca aperta.

Babbo Natale non è mai arrivato a casa mia. Non eravamo poveri, ma non navigavamo nell’oro. Ma un regalo sotto l’albero lo trovavo lo stesso. Un maglione e un pantalone, profumati, lavati e stirati; quelli di mio fratello che aveva smesso, perché allora, come era consuetudine, il più piccolo doveva riciclare quello che il fratello più grande non indossava più.

Natale per noi piccoli era la festa più bella dell’anno: avevamo tutto, l’amore della famiglia, la gioia di vivere di piccole cose semplici e genuine. Non c’era la tecnologia a dividerci, ma ci univa il senso di appartenenza ad una famiglia che sapeva trasmetterti i valori morali che ci hanno accompagnato per tutta la vita.

Peccato che di quel periodo è rimasto solo il ricordo di una fotografia ingiallita.