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Il male di vivere che colpisce gli chef

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Lo chef stellato Luciano Zazzeri aveva molti amici e un solo nemico: la depressione, che domenica sera gli ha armato la mano e rubato la vita a 63 anni. Proprietario e chef del ristorante stellato “La Pineta”, sulla spiaggia di Marina di Bibbona (Livorno), aveva ottenuto la Stella Michelin nel 2006.

Per oltre 30 anni nella sua “baracca”, come la chiamava, Zazzeri, ha ospitato vip e gente comune. Ai suoi tavoli vista mare si sono seduti Mick Jagger, i nobili più blasonati, dagli Antinori agli Incisa della Rocchetta, i re del vino Sassicaia, e Harrison Ford e Beppe Grillo.

Il menù era perlopiù a base di pesce, che Luciano si vantava di pescare da sé. Nel 2013, riporta la Stampa, il suo ristorante, unico italiano, era stato inserito nella prestigiosa classifica dei migliori locali da provare nel mondo stilata dal Financial Times. Ora a gestire la “baracca” resteranno i suoi due figli, Andrea e Daniele. Lui, lo chef stellato che aveva sempre un sorriso e una battuta per tutti, non se l’è sentita di continuare a vivere.

Depresso il 95% degli chef

Meno di un anno fa, era stato lo chef statunitense, scrittore e volto della tv, Anthony Bourdain a togliersi la vita con la cinta di un accappatoio, in una stanza d’albergo a Kaysersberg, in Francia. Solo un caso? Non proprio. Secondo quanto affermato dallo chef Daniel Patterson in un intervento al Mad Symposium di Copenaghen nel 2017, “almeno il 95 per cento degli chef è depresso”.

“Pensiamo: cosa succederà se lo ammetto? La gente smetterà di venire nei miei ristoranti? Beh, io me ne son fregato, non l’ho detto a nessuno che avrei scritto questo discorso. E sono qui, a raccontarvi la mia storia. Improvvisamente mi sono sentito giù. In un baratro. Come non avessi sangue nelle vene. Ogni cosa richiedeva uno sforzo enorme. E un giorno ho scoperto che la mia creatività era interrotta, non riuscivo più nemmeno a creare un piatto. È stato allora che ho capito che era il momento di rivolgermi a un dottore. Tra di noi c’è un altissima percentuale di problemi mentali”, ha raccontato.

Gli altri chef suicidi

Il primo cuoco suicida di cui si ha memoria è François Vatel: nel 1671 attese per ore del pesce fresco che gli occorreva per una cena nel castello di Chantilly alla quale era invitato Luigi XIV. Resosi conto che le orate e le spigole non sarebbero arrivate in tempo, si conficcò un coltello da cucina in pancia.

Tra gli stellati che l’hanno fatta finita c’è Benoît Violier, 44 anni, chef franco-svizzero dell’Hotel de Ville di Crissier, Losanna, tre stelle Michelin, la notte di domenica 31 gennaio 2016, nella sua casa di Crissier, si sparò in testa con un fucile da caccia. Era stato appena nominato miglior cuoco al mondo da La Liste, la versione francese dei “50 best”.  

Prima di lui, ricorda il Fatto Quotidiano, ci furono i suicidi eccellenti di Bernard Loiseau e Pierre Jaubert. Il primo si uccise con un fucile da caccia nel suo Côte d’Or a Saulieu in Borgogna il 24 febbraio 2003. Si disse che fosse affetto da disturbo bipolare, e che il gesto estremo avesse come motivazione la prossima (e mai avvenuta almeno fino ad oggi) cancellazione della terza stella sulla Michelin.

Jaubert, invece, si tolse la vita nell’ottobre del 2003. Titolare della cucina dell’Hôtel de Bordeaux a Pons, nel Charente-Maritime francese, non aveva subito “traumi” da cattivi recensori e nemmeno era finito in truffe o affari impossibili.

Nel 2013 un altro grande chef, Joseph Cerniglia, si era buttato dal George Washington Bridge.

Gli italiani

Il male di vivere non risparmia nemmeno gli chef nostrani. Prima di Zazzeri, altri due stellati si erano tolti la vita: Franco Colombani e Sauro Brunicardi. Il primo era lo chef della Locanda del Sole di Maleo (Lodi) che nel maggio del ’96 infilò la testa in un sacchetto di plastica. Nel biglietto d’addio chiese di essere sepolto con la divisa da chef.

Brunicardi, titolare de “La Mora”, in provincia di Lucca, nel dicembre 2009 si fece scivolare nel fiume Serchio fino ad annegare.

Il nono mestiere più stressante al mondo

Secondo una ricerca condotta da Harvard e dalla Stanford University, quello dello chef è il nono mestiere che crea più disturbi di personalità. Al primo posto ci sono i manager, seguiti da avvocati e chirurghi. Un risultato che ha spinto il presidente dell’Associazione cuochi professionali del Regno Unito, l’italiano Carmelo Carnevale, a lanciare una serie di corsi di formazione che permettano agli chef di controllare tensione e stress.

“La nostra è una professione faticosa”, ha spiegato a IoDonna, Carnevale. “Siamo in trincea per 16 ore al giorno, dobbiamo comandare una brigata che a volte non è ben amalgamata, ma anche affrontare il pubblico ed eventualmente le sue rimostranze. La tensione è altissima e sono molti i colleghi che ricorrono all’alcol o alle pasticche per resistere allo stress”, ha continuato lo chef rievocando involontariamente il protagonista del film Burnt, Adam Jones (Bradley Cooper), chef pluripremiato caduto in depressione che si è messo a pulire compulsivamente ostriche in una bettola di New Orleans fino allo sfinimento come atto d’espiazione della colpa di un ristorante finito male.

“Con i corsi vogliamo lavorare sulla crescita della consapevolezza di sé e sulla stima personale”, ha ricordato la psicologa Anna Maria Tino, anima del progetto anti-ansia degli chef. “Ci interessa riuscire a migliorare la capacità di relazione dei cuochi, che spesso sfogano in famiglia, con i coniugi e i figli, le loro ansie e paure. L’idea è quella di impegnarci sul benessere psicologico per far sì che una volta ai fornelli questi professionisti possano rendere al meglio in serenità”.

Vedi: Il male di vivere che colpisce gli chef
Fonte: estero agi


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