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Il lavoro automatizzato: problemi e potenzialità

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di Renato Costanzo Gatti

Qualche anno fa la General Motors era l’impresa statunitense che faceva registrare il maggior fatturato occupando 600.000 persone, oggi il fatturato di Apple è molto più alto di quello di General Motors e viene prodotto con 80.000 dipendenti. Certamente la tecnologia e l’innovazione rivoluzionano i rapporti tra lavoro vivo e lavoro morto; il dominio del capitale si estende facendo arretrare i diritti dei lavoratori, dominandoli con il disgregarne la compattezza che un tempo ne caratterizzava la connotazione; le prospettive di sempre maggior sostituzione di lavoro umano con macchine e robots rendono urgente una presa di coscienza di come organizzare una società stravolta nella distribuzione del prodotto sociale tra capitale e lavoro.

È in atto una rivoluzione che sta mutando il sistema produttivo dominato dalla produzione delle macchine e dallo sconvolgimento del mondo del lavoro: da un lato saranno (e sono già stati) distrutti milioni di posti di lavoro sostituiti da macchine sempre più autoapprendenti, dall’altro lato il capitale si appella all’intelligenza dei lavoratori, appropriandosi dei prodotti del cervello, per creare nuovi prodotti immateriali destinati a rendere obsoleto il lavoro, sostituito dai robots.

La reazione luddista, la negazione delle macchine, del prodotto del lavoro umano sarebbe decisamente perdente; non è negando l’avanzamento del potere della conoscenza umana che si risolvono i problemi; i problemi si risolvono adeguando il modo di produzione ai conseguenti rapporti tra le forze sociali; lo sviluppo del lavoro automatizzato ha la grande potenzialità di liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro salariato, dalla tremenda necessità per cui l’uomo sia costretto a vendere la sua forza lavoro per poter sopravvivere e non possa al contrario dedicare le sue forze a realizzare sé stesso. L’automatizzazione della produzione ha il potere di non costringere più l’uomo a vendersi per sopravvivere ma, al contrario, servirà a dar modo all’uomo di utilizzare le sue facoltà per sé e per la comunità in cui vive rivoluzionando un modo di vivere che ha visto, nel corso della storia, dalla schiavitù alla servitù, e quindi al lavoro salariato forme di alienazione che hanno negato la libera espressione dell’essere umano.

Lo sviluppo tecnologico, l’innovazione sono sempre stati considerati dai modelli economici come una causa esogena, esterna cioè al sistema economico, che doveva essere considerato come estraneo ai meccanismi economici e assunto come dato esterno da assumere senza entrare come componente delle formule economiche elaborate. Solo Schumpeter ha invece considerato l’innovazione come elemento causale determinante, dando alla stessa la sconvolgente funzione di “distruzione creatrice” che governa lo sviluppo dell’economia che, invece di puntare ad un equilibrio statico, vive di una dialettica che porta alla dinamica dello sviluppo economico.

Nel 1998, il filosofo argentino Mario Bunge, prendendo in esame i modelli elaborati dalla dottrina dominante, rileva il disinteresse per gli aspetti tecnologici e propone di dare maggiore impulso a una sociologia della tecnica. Nota, inoltre, che «la teoria economica neoclassica, concentrando l’attenzione su preferenze soggettive, scelte e decisioni, ignora la tecnologia come fattore di produzione e come uno dei principali motori del cambiamento economico».

Marx, al contrario, pone molta attenzione al tema tecnologia ed innovazione. Egli ritiene che lo sviluppo tecnico-scientifico sia il motore fondamentale del mutamento economico e sociale, e che l’automazione, rappresentando lo stadio più avanzato di detto sviluppo, non potrà che avere conseguenze rivoluzionarie.

Secondo la profezia di Marx, prima o poi, tutto (o quasi tutto) il sistema di produzione sarebbe stato automatizzato, generando disoccupazione tecnologica di massa, e creando le condizioni per il superamento del capitalismo e l’avvento del socialismo. L’automazione integrale, lungi dal rappresentare un incubo, è vista dunque come la chiave di volta per poter uscire dal modo di produzione capitalistico, senza precipitare di nuovo nell’inferno della scarsità.

La scomparsa del lavoro vivo costituisce la più radicale trasformazione del modo di produzione ed i riflessi di questa trasformazione si riflettono drammaticamente sui rapporti tra le forze produttive e quindi nei rapporti sociali.

È vero che ci saranno moltissimi posti di lavoro che scompariranno, è vero che altri posti di lavoro, ma, ritengo, non nella stessa quantità di quelli distrutti, saranno creati nel contempo; è vero che allora occorre formare nuove figure di lavoratori che, negando la figura disegnata dal fordismo, sia molto più digitalizzato e confidente con le nuove tecnologie; è vero che più avanti nel tempo anche queste nuove figure di lavoro acculturato potranno essere rese obsolete introducendoci nella società senza lavoro vivo.

Il riformismo sovrastrutturale ha conosciuto decenni di grandi conquiste, ma dobbiamo anche, onestamente, riconoscere che negli ultimi decenni questi diritti sono stati in gran parte “precarizzati” e che la posizione riformista ha dovuto riscontrare arretramenti su parecchi fronti, dimostrandosi non più efficace nel mondo del dopo crollo del muro.

Il riformismo deve mutare l’oggetto dei suoi obiettivi; deve diventare un riformismo che punta alla modifica, al condizionamento della struttura dell’economia.