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Il gong di Hong Kong per Trump (e Biden)

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AGI – Gong. Alla porta dello Studio Ovale bussano le notizie che arrivano da Hong Kong. Il Dragone sta usando il fuoco. A tre giorni dalle sanzioni imposte dal Tesoro americano sulla governatrice Carrie Lam e altri funzionari di primo piano dell’amministrazione dell’isola, arriva un colpo durissimo della Cina: l’arresto di Jimmy Lai, editore di Apple Daily, 71 anni, imprenditore pro-democrazia, proprietario del gruppo Next Digital, presente con influenti giornali e riviste nell’ex colonia britannica e a Taiwan, l’altra isola che è il prossimo bersaglio della Cina.

Le nuove leggi per la sicurezza imposte da Pechino hanno colpito al livello più alto, dove abita la libertà di stampa. Sul futuro di Lai si addensano grandi nubi. Insieme a Lai sono stati arrestati altri dirigenti del gruppo editoriale e i suoi due figli, è ricercato dalla polizia di Hong Kong il suo braccio, Mark Simon, che è all’estero.

Agli arresti anche due esponenti politici delle forze d’opposizione, Lee Cheuk-yan, 63 anni, vicepresidente del Partito del lavoro, e Yeung Sum, 72 anni, ex presidente del Partito democratico. Gli uffici del gruppo editoriale sono stati perquisiti da una squadra di 200 agenti di polizia. La realtà di Hong Kong non è quella della formula degli anni Ottanta con cui Deng Xiaoping costruì il negoziato su Hong Kong con il Regno Unito: della Cina con l’Occidente: “One country, two systems”, la formula del 2020 è diversa: “Un paese, un sistema”. Quello della repressione.

Prova di forza

Il pressing del presidente Donald Trump e del segretario di Stato Mike Pompeo nelle ultime settimane era giustificato, il giro di vite di Xi Jinping è stato rapido e spietato, ha colpito il cuore della dissidenza, la sua voce libera.

Il 7 agosto il Tesoro ha varato le sanzioni con il chiaro obiettivo politico di non lasciare nemmeno l’impressione che la Cina possa fare e disfare i patti sottoscritti su Hong Kong, sopprimere la libertà di manifestare, la libera circolazione delle idee. Il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin aveva sottolineato che “gli Stati Uniti si schierano con il popolo di Hong Kong, useremo i nostri mezzi e autorità per colpire coloro che minano la sua autonomia”.

La risposta di Pechino è arrivata con l’arresto di Jimmy Lai, una prova di forza del governo cinese che si mostra sicuro di non subire conseguenze a livello internazionale. Il calcolo della Cina finora ha funzionato, l’Unione europea è ininfluente finché non applicherà sanzioni (e al suo interno la Cina può contare su molti alleati che adottano la linea del silenzio, della non ingerenza sui fatti interni di un paese straniero, come l’Italia) e non cesserà di far finta di difendere la libertà con comunicati stampa che non impensieriscono nessuno, la Russia è alleata della Cina, gli autocrati fanno blocco, Putin e Xi duettano nel Consiglio di sicurezza dell’Onu contro gli americani, le forniture di energia attraverso il gasdotto “Power of Siberia” hanno saldato i rapporti tra Mosca a Pechino; il resto del mondo è marginale e in gran parte è già colonizzato dalla Cina (una buona parte dell’Africa) o sotto la sua influenza. 

La risposta dell’Anglosfera

Restano in campo Donald Trump e Boris Johnson, i paesi dell’Anglosfera che ora dovranno rispondere, sono chiamati a muovere le loro pedine sulla scacchiera. Trump è l’avversario più temuto da Pechino (il presidente è considerato “imprevedibile”, il governo cinese lavora per influenzare la campagna presidenziale, come ha rivelato il controspionaggio americano); Johnson è il premier del paese che ha siglato nel 1997 con la Cina gli accordi per il passaggio dei poteri sulla colonia (il governatore era Lord Chris Patten), ha importanti interessi economici nell’isola, dinastie e imprese che mantengono le loro strette relazioni con il Regno Unito (basta pensare, per esempio, alle origini britanniche del gruppo Swire, azionista di controllo della compagnia aerea Cathay Pacific), un progetto post Brexit per tornare a usare Hong Kong come portaerei del business britannico, disegno complicato dalla stretta sulla libertà che si traduce in uno spazio di manovra delle imprese sempre più rischioso. 

L’arresto di Jimmy Lai colpisce in maniera diretta l’amministrazione Trump, l’imprenditore di Hong Kong l’anno scorso era stato a Washington per incontrare il vice presidente Mike Pence e aveva sollecitato in una conferenza stampa l’adozione da parte degli Stati Uniti della legge pro-democrazia, battezzata dal Congresso “Hong Kong Human Rights and Democracy Act”, votata nel novembre del 2019 dal parlamento americano, che stabilisce il monitoraggio delle attività della Cina e il relativo mantenimento o meno dello status speciale del territorio, poi sospeso dagli Stati Uniti quando l’Assemblea Nazionale del Popolo ha approvato la nuova legge sulla sicurezza il 30 giugno scorso. Le pietre stanno rotolando a valle. 

Attenzione ai dettagli: la polizia ha eseguito 7 arresti, l’accusa è quella di “collusione con forze straniere e cospirazione per commettere frodi”. Dietro l’arresto di Jimmy Lai c’è l’idea di Pechino del complotto, l’accusa “intelligenza con il nemico”. È la relazione con Washington a mettere l’editore nella posizione di bersaglio del regime cinese, la “collusione” con una potenza straniera, gli Stati Uniti d’America. 

Il dossier Cina

Sulla scrivania di Trump il dossier Cina è sempre più voluminoso e radioattivo. La battaglia dei dazi e del container, le azioni per contenere l’espansione di Huawei e della sua tecnologia 5G in Occidente, gli ordini esecutivi di Trump su TikTok e WeChat, il piano in cinque punti sulla sicurezza delle Reti annunciato pochi giorni fa dal Dipartimento di Stato, la tensione sulla presenza militare della Cina nel Mar meridionale cinese, le violazioni dei diritti umani, la nuova legge sulla sicurezza imposta a Hong Kong, la repressione della dissidenza, il bando dei libri contro Pechino, la fuga all’estero di esponenti dei movimenti democratici e oggi, un fulmine, l’arresto di Jimmy Lai, un editore punto di riferimento delle voci libere dell’ex colonia.

Il calcolo di Xi Jinping è chiaro: può rischiare, l’Occidente è piegato dall’epidemia del coronavirus, il regime non può permettersi la dissidenza, Hong Kong resterà in ogni caso la banca occidentale della Cina, gli Stati Uniti e i suoi alleati sono distratti, impantanati nella crisi provocata da mesi di lockdown. Pechino è uscita dalla pandemia più forte di prima. 

Il dossier di Hong Kong diventa un problema anche per i Democratici, Joe Biden secondo l’intelligence americana è il candidato preferito da Pechino, dovrà allontanare quest’ombra senza mostrare segni di appeasement con Pechino, a cominciare da oggi, l’arresto di Jimmy Lai per i Dem è una spia che lampeggia. È quella rossa della Cina.

Vedi: Il gong di Hong Kong per Trump (e Biden)
Fonte: estero agi


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