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di Xavier Mancoso

Non è stato uno spettacolo edificante quello che si è consumato in questi giorni nel Parlamento italiano. La ricerca spasmodica dei numeri da parte di una maggioranza traballante; i singoli deputati, i “peones”, quelli della seconda linea, stretti tra le tentazioni governative e il richiamo ad una draconiana disciplina di partito; un dibattito stereotipo, ripetitivo, senza colpi d’ala, qua e là anche sguaiato. Alla fine, un regolamento arcaico ha perfino costretto la Presidente del Senato a ricorrere alla moviola televisiva per completare la votazione. Ma è inutile cercare un vincitore in questa partita, perché hanno perso tutti.

Giuseppe Conte non ha vinto.

L’esito del voto di fiducia al Senato ha registrato, di fatto, un pareggio: 156 sì da una parte, 140 no + 16 astensioni dall’altra. L’esecutivo passa il turno come nei tornei di calcio, vittoria all’andata (Camera) e pareggio al ritorno (Senato), ma la prossima partita, quella di governare il Paese portandolo fuori dalla pandemia, salvandolo dal tracollo economico, garantendone la coesione sociale, sarà un ostacolo terribile da superare e, francamente, considerando le condizioni della squadra, il pronostico, se non proprio chiuso, è più che mai incerto.

Il Presidente del Consiglio ha forse rafforzato la sua popolarità per non essersi piegato agli ultimatum di Renzi, per averlo sfidato in Parlamento ed estromesso dalla coalizione di governo. Ma si ritrova una base parlamentare più esigua, al Senato addirittura minoritaria. Con questi numeri sarà difficile far passare qualsiasi provvedimento e il potere condizionante delle opposizioni, a partire da Renzi, costringerà a mediazioni o capitolazioni continue.

L’assunto secondo il quale la maggioranza, pur ristretta, sarà più coesa è tutto da dimostrare. Già si pone il problema di “rinforzare la squadra”, cioè andare a un rimpasto. Il PD preme per un “patto di legislatura”, che significa rifare il programma, il che richiede un’improbabile visione comune e un problematica condivisione del progetto politico con il Movimento grillino.

Il patto di governo potrebbe acquistare solidità solo costruendo una nuova, strutturata formazione di centro. Ma far nascere nuovi gruppi parlamentari con quei pochi transfughi raccogliticci, trovare adesioni a un raggruppamento con centristi, socialisti e dissidenti berlusconiani è cosa tutt’altro che semplice, un progetto vago che potrebbe andare avanti solo con il patrocinio diretto di Conte. Tuttavia se il premier diventasse il capo di una componente politica della maggioranza cesserebbe, ipso facto, quel suo ruolo di punto di equilibrio sul quale si regge tutto il fragile edificio.

Matteo Renzi non ha vinto.

Le dimissioni delle ministre renziane dal governo avevano come scopo di spingere Conte alle dimissioni e aprire una crisi formale per sedersi al tavolo della trattativa per un nuovo governo, preferibilmente con un altro premier, segnando un successo politico per Italia viva, che avrebbe potuto intestarsi una svolta nel programma e ottenere uno spazio più ampio nel governo e, soprattutto, nel sottogoverno.

Niente di tutto questo si è verificato. Renzi si dice soddisfatto dell’aver dimostratoche senza di lui il governo “non ha i numeri”, pensa a mettere in atto una guerriglia permanente nelle commissioni, almeno al Senato. Ma questi sono risultati da guastatore (ruolo nel quale è considerato maestro), non da costruttore.

In realtà il senatore di Rignano ha poco da vantarsi per aver indebolito il governo in un momento di massima emergenza sanitaria, economica e sociale, e per la sua spregiudicatezza paga un prezzo anche in termini di controllo del suo gruppo, che già ha cominciato e perdere pezzi e sul quale si concentrerà un fuoco di sbarramento concentrico per aprire ai delusi un varco per rientrare nel PD.

Lo stesso, ambizioso e pretenzioso progetto di fare da guida ad un’area di centro europeista e collegata all’America di Biden, capace di di fare da perno per far ruotare le maggioranze di governo è, al momento, povera di voti ma affollata di pretendenti, come i berlusconiani e, soprattutto, lo stesso Conte.

L’opposizione di centrodestra non ha vinto.

Salvini e Meloni, alla fine della fiera, vedono sfumare la prospettiva delle elezioni anticipate nel breve periodo e assistono all’ingombrarsi dello spazio di opposizione  con la nuova, sgradita presenza di Renzi.

Ma è Forza Italia che resta ammaccata dalle defezioni interne. Il partito di Berlusconi si dà l’atteggiamento di chi dovrà rappresentare, in un futuro governo di centro-destra, la forza equilibratrice che apre le porte dell’Europa e rassicura l’opinione pubblica moderata, ma tra gli azzurri è tanto forte quanto fondata la preoccupazione di venire fagocitati dalle destre populiste e sovraniste e i colonnelli dell’ex Cavaliere dovranno penare abbastanza per mantenere l’integrità del partito e dei gruppi parlamentari.

In definitiva hanno perso tutti, ma a retrocedere sono le cittadine e i cittadini italiani, i lavoratori e le imprese, che vivono nella paura di perdere la salute e il reddito e avrebbero bisogno di leader veri, di una politica credibile.


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