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Dentro l'hotel 'quarantena' di Milano a 4 stelle, coi senzatetto e chi conta i giorni per la libertà

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“Scrivo e leggo tanto. Questo è stato anche un tempo per me. Però ho voglia di tornare a casa e vedere mia moglie. Lei sta al quinto, io al tredicesimo piano, non ci siamo mai incrociati qua dentro. Vietato”.

All’hotel Michelangelo di Milano, primo in Europa ad aprirsi ai malati di Covid,  è il 50esimo giorno della quarantena a  quattro stelle. Roberto aspetta per oggi l’esito del tampone, se fosse negativo ce ne vorrà un altro con lo stesso risultato per lasciare l”albergo  con 300 stanze che, prima del  virus, era attraversato dalle fibrillazioni di chi passava in città per un’opportunità, un affare, un’idea o un convegno. 

“Oggi  con la riapertura dei negozi c’è un po’ di rumore,  speriamo non smetta più. Non dimentico il silenzio del primo giorno”, si augura Luigi Regalia, il responsabile della cooperativa Proges e dell’iniziativa promossa dal Comune, sporgendosi dal terrazzo  del diciassettesimo piano dove domani si esibiranno dei musicisti. C’è la Milano con la sua storia e i suoi edifici scintillanti distesa dall’alto, alla ricerca di un equilibrio tra paura e nuova energia.

“Questo è il lato sud-est, è importante saperlo perché abbiamo molti pazienti che fanno il ramadan e vogliono sapere dove si trova la Mecca per pregare. Qui ho fatto ‘evadere’ una sola ospite speciale. Suor Vittoria era affacciata dall’altra parte, verso la stazione e i grattacieli,  vista super ma lei aveva voglia di  vedere il Duomo. E’ venuta qua e ha recitato una preghiera guardandolo. E’ un ricordo che mi porterò dentro”.  

“La prima ad ammalarsi è stata mia moglie – prosegue la storia  di Roberto – poi ho avuto gli stessi sintomi. Oggi è il mio sedicesimo giorno. Qui è un altro mondo rispetto all’ospedale dove sono stato molto preoccupato perché all’inizio le terapie non funzionavano.  Al contrario di quanto si potrebbe pensare, le giornate vanno veloci. Ci sono gli operatori sanitari che vengono per i parametri, l’arrivo di pranzo e cena e tanti amici e familiari che chiamano in continuazione”. 

Roberto è italiano ed è arrivato dopo le dimissioni dall’ospedale, come accadeva alla gran parte dei primi ospiti. Ora il quadro sta cambiando. “All’inizio – spiega Regalia – avevamo tanti rappresentanti delle forze dell’ordine che non potevano restare in caserma dopo essere risultati positivi e persone dimesse che, vivendo con altri, magari in famiglie numerose, non potevano condividere la convalescenza con altri. Ora giungono soprattutto stranieri dalle comunità di accoglienza, come la Casa della carità, il dormitorio di via Ortles o l’Opera San Francesco, dove da una quindicina di giorni Ats, l’azienda sociosanitaria, ha cominciato a fare i tamponi. Increduli nel trovarsi dentro 20 metri quadri con la moquette. Non è sempre facile comunicare nelle loro lingue, ma abbiamo infermieri che parlano l’arabo e il russo e coi gesti ci si capisce sempre. Quello che conta per noi non è il numero degli arrivi, ma dei dimessi che sta crescendo fino a superare gli  ingressi. In media stanno una ventina di giorni, a volte diventano trenta e allora alcuni sbroccano, vogliono uscire a fumare, vedere i parenti, mangiare una pizza. Come non capirli?”. 

A sconsigliare la ‘fuga’ c’è anche la presenza di tre militari all’ingresso.

Della vecchia reception è rimasta solo una giovane dipendente, poi presidiano le infermiere e i volontari che accolgono chi arriva, prendendo nota minuziosa della sua storia clinica, e quindi lo fanno accomodare in camera, accompagnandolo all’ascensore dedicato ai Covid-positivi, distinto con apposito cartello da quello per i non infettati. 

“Gli diamo subito un kit per le pulizie perché nessuno deve entrare in stanza da fuori e sono quasi tutti autosufficienti, in grado di mantenere l’igiene. I pasti arrivano con un sacchettino, tipo un delivery, dove poi lasciano l’immondizia che viene depositata fuori alla porta. La colazione viene consegnata fredda la sera prima. Un nostro medico gli insegna come farsi da soli la puntura di eparina (terapia che sembra apportare molti benefici nel contrasto al virus, ndr)”. 

Le porte delle stanze con idromassaggio e ogni comodità si aprono molto di rado. Per ricevere qualche consegna dai parenti,  per la misurazione dei parametri e per essere sottoposti ai tamponi.

Sofia e Donatella, con visiera e robuste protezioni, bussano alla stanza di un uomo che ‘risponde’ allungando il braccio. Prendono l’ossigeno nel sangue con il saturimetro al dito e pongono qualche domanda a cui lui replica con voce debole. “Come sta? Ha tosse? Sente sapori e odori?Ha bisogno di qualcosa?”.

“In realtà il nostro mestiere è tutt’altro – precisano le due – siamo ortottiste e ci hanno mandate qui dopo la chiusura degli ambulatori. Non esattamente come volontarie…Non tutti i pazienti sono disponibili, capita che qualcuno ci tratti male. Se escono senza mascherina li facciamo rientrare per mettersela”.

“La comunicazione è solo di occhi – riflette Luigi – ma  tutto passa da lì. I miei collaboratori ci mettono tanto entusiasmo, la paura iniziale ha lasciato spazio alla voglia di mettersi al servizio. Io  raccomando di sfoggiare  un sorriso dietro la mascherina quando portano il pranzo, che poi si rifletta nello sguardo. Quando gli ospiti se ne vanno spesso sono lacrime. Nostre e loro.  A volte, fiumi di lacrime .Ci scrivono messaggi, parole dolci, talora qualche piccola critica”.

Da una porta si affaccia un signore e si rivolge a Luigi con voce festosa: “E’ arrivato il risultato del tampone. Negativo! Ci sono voluti cinque giorni ma sono contento”. “Ten dur”, lo esorta lui, con cameratismo ‘milanese’. 

Marco, 34enne napoletano, salito a Milano per lavoro da due anni, è nel fortino della 1315.  “Faccio l’infermiere all’ospedale di Sesto San Giovanni e mi sono ammalato lavorando. Sono qui dall’11 aprile, ora mi sento bene.  Vedo la televisione, faccio qualche chiamata. Mi manca la normalità e anche il mio lavoro. No, non ho paura di tornare in corsia, se ne avessi avrei scelto un altro mestiere, e nemmeno sono arrabbiato, ma deluso sì, tanto. Pensavo che la Lombardia fosse l’eccellenza sanitaria, ma c’è stata una gestione impropria del virus negli ospedali. L’azienda non ci ha tutelati, a noi hanno dato mascherine monouso che dovevamo usare più volte e i camici da spartire”.

“Questo è un esempio di grande collaborazione, senza colore politico – è il bilancio di Luigi al giorno 50 – il progetto è di Comune e Prefettura, poi si sono aggiunti Ats Città Metropolitana per la parte di sanità pubblica, la Asst Nord Milano e noi che già lavoriamo con Palazzo Marino per la gestione delle case di riposo per supporto e logistica, i medici volontari perché qualcuno in una comunità di 200 persone può  avere altri problemi di salute oltre al Covid e la proprietà dell’albergo che l’ha messo a disposizione. So che ci sono ragionamenti su altri hotel, vedremo. Per me un’esperienza fantastica e, ci tengo a dirlo, il nostro è un messaggio di speranza”. 

 

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Fonte: cronaca agi


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