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Delocalizzazioni e dumping fiscale

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Nessuna legge può inchiodare un’impresa a mantenere un’attività in perdita, tuttavia il fenomeno riguarda anche imprese che non sono in perdita ma che cercano in altri paesi profitti superiori a quelli realizzati in Italia. Spesso le imprese che delocalizzano hanno ricevuto fondi o incentivi dallo Stato. La possibilità di aumentare i profitti con la delocalizzazione può dipendere da molti elementi, a cominciare dal fattore fiscale e dal costo della mano d’opera.

di Renato Costanzo Gatti

Se avessi pronta una legge per combattere le delocalizzazioni, non sarei qui al computer ma dovrei trasferirmi a Palazzo Chigi; il problema è difficile e complicato e va considerato nella sua complessità.

Cominciamo ad esaminare il parere dell’Istituto Bruno Leoni, campione del liberismo nostrano:

Le imprese non licenziano per sadismo: lo fanno se, e quando, un’attività produttiva non è più finanziariamente sostenibile. Non c’è legge al mondo che possa inchiodare un’impresa a mantenere un’attività in perdita. E, se ciò fosse possibile, finirebbe per spingere nel burrone anche le altre attività della medesima impresa, creando così un danno occupazionale molto più esteso.

Ma il tentativo di vietare le chiusure (motivate dalla volontà di delocalizzare o da altro) è anche, e soprattutto, dannoso, economicamente e culturalmente. Economicamente perché il rischio è quello di disincentivare le imprese (italiane ed estere) a investire nel nostro paese, per timore di doversi accollare costi eccessivi nel caso in cui le cose andassero male. È dannoso culturalmente, perché si tratta, in pratica, di un modo per scaricare sui privati funzioni tipicamente pubbliche: offrire sostegno, formazione e riqualificazione ai lavoratori è il cuore di quelle politiche attive del lavoro che tutti invocano ma che, poi, non si riesce a disegnare in modo efficiente. E, dunque, invece di concentrarsi sul far funzionare bene lo Stato, si finisce per imporre alle imprese vincoli e obblighi insostenibili.”

D’accordo che nessuna legge possa inchiodare un’impresa a mantenere un’attività in perdita, ma l’Istituto non si pronuncia su quelle imprese che non sono in perdita ma che evidentemente ritengono che in altri paesi, anche se europei, possono avere profitti superiori a quelli realizzati in Italia. L’Istituto ignora pure che spesso le imprese che delocalizzano hanno ricevuto fondi o incentivi dallo Stato, e pure ignora l’elemento procedurale anomalo (e-mail o sms) con cui i licenziamenti vengono comunicati. Comunque, restando all’elemento più strettamente economico torniamo alla possibilità di aumentare i profitti con la delocalizzazione. E avere profitti maggiori può dipendere da molti fattori; in primis vorrei esaminare due di questi fattori: fattore fiscale e costo della mano d’opera.

Il fattore fiscale

Che ci sia una concorrenza fiscale tra i paesi della stessa Comunità europea è un vulnus che dovrebbe essere al primo posto nell’agenda della legislazione europea. Roberto Rustichelli, Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, durante l’audizione alla Camera del 2 luglio 2020 sul Programma di lavoro della Commissione europea per il 2020 e sulla Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia alla Unione europea nell’anno 2020, per definire il panorama di concorrenza fiscale sleale tra paesi europei, ha usato il termine di dumping fiscale, che fa perdere all’Italia dai 5 agli 8 miliardi di dollari ogni anno.

L’esperienza, unica nella storia del nostro continente, di un’unione monetaria accompagnata da una crescente integrazione dei mercati reali e finanziari è sempre più incrinata dall’assenza di stringenti regole comuni fiscali e contributive. Tale vuoto normativo rende possibile ad alcuni Stati membri di porre in essere pratiche di dumping fiscale e contributivo, che possono minare le fondamenta della stessa costruzione europea”.

L’elenco delle imprese che hanno delocalizzato è largamente noto e copioso, assolutamente ignorato dal governo dei “migliori” e, al di là dell’indignazione dei contribuenti onesti, al sicuro dalle interferenze dell’autorità europea perché quella fiscale è materia esclusa dalla giurisdizione europea. Ed invece, al contrario, proprio una imposizione fiscale comune sui redditi d’impresa all’interno della comunità sarebbe da auspicarsi proprio al fine di mettere un alt alla concorrenza sleale in materia fiscale tra paesi della comunità.

Il costo della mano d’opera

Il differenziale del costo della mano d’opera è l’altro fattore determinante che governa la logica delle delocalizzazioni. Se guardiamo, per esempio, al caso Caterpillar, rileviamo che il direttore della fabbrica si è presentato ai cancelli accompagnato dalle guardie del corpo. Il direttore Jean Mathieu Chatain è intervenuto con il megafono davanti ai lavoratori, affermando che: “Non è una scelta che riguarda il valore delle persone, lo stabilimento fa un’ottima produzione. Ma a livello di costi, conviene ed è più competitivo produrre i cilindri altrove, in gran parte – il 70-80% – presso terzi. Di quanto resta, non è conveniente la produzione a Jesi”. Si parla infatti che la produzione verrà delocalizzata in Polonia o in altri stabilimenti della multinazionale all’estero.

In questo ragionamento si confronta il costo della mano d’opera come misura assoluta senza considerare che c’è una grossa variabilità nei contenuti della mano d’opera, variabilità che è a monte del mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di lavoro. È ovvio che a parità di contenuto tecnologico dell’offerta di lavoro quello, ad esempio, polacco è più conveniente di quello italiano; il punto è quello di costruire un “capitale umano” con un contenuto tecnologico della mano d’opera tale da renderlo insostituibile dalla concorrenza dei paesi meno sviluppati. Sembra, su questo punto, poter convenire con l’Istituto Bruno Leoni quando scrive: “offrire sostegno, formazione e riqualificazione ai lavoratori è il cuore di quelle politiche attive del lavoro che tutti invocano ma che, poi, non si riesce a disegnare in modo efficiente”.

La costruzione del “capitale umano” è quindi uno degli obiettivi che Stato, sindacati, sistema produttivo potrebbero avere in comune per perseguire concorrenzialità schumpeteriana e divisione internazionale del lavoro, ma è un obiettivo che è necessariamente finanziato dai contribuenti a favore del capitale, e che richiede una corrispondente ripartizione del rapporto capitale-lavoro nella proprietà delle imprese e nella loro gestione.

L’approccio costruttivo e creativo è senz’altro preferibile ad una sterile protesta sulle modalità anomale adottate dalle imprese, o ad auspicare divieti e limitazioni che risultano più di facciata che di reale utilità.

Ritengo che gli 8 punti predisposti dai giuslavoristi e dai lavoratori della Gkn, vadano nella direzione che sto indicando; li riporto di seguito:

1. A fronte di condizioni oggettive e controllabili l’autorità pubblica deve essere legittimata a non autorizzare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.

2. L’impresa che intenda chiudere un sito produttivo deve informare preventivamente l’autorità pubblica e le rappresentanze dei lavoratori presenti in azienda e nelle eventuali aziende dell’indotto, nonché le rispettive organizzazioni sindacali e quelle più rappresentative di settore.

3. L’informazione deve permettere un controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, al fine di valutare la possibilità di una soluzione alternativa alla chiusura.

4. La soluzione alternativa viene definita in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate.

5. Il Piano viene approvato dall’autorità pubblica, con il parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori coinvolti, espressa attraverso le proprie rappresentanze. L’autorità pubblica garantisce e controlla il rispetto del Piano da parte dell’impresa.

6. Nessuna procedura di licenziamento può essere avviata prima dell’attuazione del Piano.

7. L’eventuale cessione dell’azienda deve prevedere un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali. In tutte le ipotesi di cessione deve essere garantita la continuità produttiva dell’azienda, la piena occupazione di lavoratrici e lavoratori e il mantenimento dei trattamenti economico-normativi. Nelle ipotesi in cui le cessioni non siano a favore dello Stato o della cooperativa deve essere previsto un controllo pubblico sulla solvibilità dei cessionari.

8. Il mancato rispetto da parte dell’azienda delle procedure sopra descritte comporta l’illegittimità dei licenziamenti ed integra un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970

La maturazione del mondo del lavoro è, lo ricordo, il cuore della rivoluzione in senso gramsciano, che può portare i subalterni a divenire dirigenti; un processo dialettico che magmaticamente porta ad una reale introduzione dei valori del mondo del lavoro nella gestione delle imprese oggi monopolizzata dall’egemonia del capitale.

Nella prospettiva poi della robotizzazione della produzione e del possibile azzeramento del lavoro vivo, essere dirigenti e non subalterni nella fase di trasformazione, permette al mondo del lavoro di avere un ruolo e di non essere emarginato nell’assistenzialismo globale, nel neo schiavismo del dopo capitalismo.