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"Così assisto i medici che vedono la gente morire". Il racconto dello psicologo in corsia

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Essere in reparto insieme ai medici e per loro, scavalcare le differenze professionali, le diffidenze reciproche, imparare a “curare con uno sguardo”, quando gli occhi sono l’unica parte del corpo non coperta da un dispositivo di protezione individuale. E’ così che hanno imparato a lavorare gli psicologi in corsia, presenti nei riparti dove oggi si combatte senza sosta contro l’epidemia di coronavirus.

Questo anche il ruolo di Damiano Rizzi, presidente della Ong ‘Soleterre’ che opera nei reparti Covid del San Matteo di Pavia, uno dei primi ospedali travolti dall’ondata di contagi. Una lunga storia – raccontata all’AGI – di supporto alla sofferenza quella degli psicologi di Soleterre, partita nell’oncologia pediatrica del policlinico, ma che, giocoforza, ha dovuto adattarsi all’esplosione di un’infezione che ha cambiato le vite e il lavoro di molti, soprattutto negli ospedali. 

“Quindici psicologi stanno lavorando senza sosta per rendere pensabile un vuoto totale di comunicazione imposto dalla malattia e dai sistemi di protezione. Si fanno portavoce di messaggi al paziente, cercano sistemi per ascoltare il dolore e restituirlo bonificato”. Non solo quello di chi è in un letto, e che “molto spesso è troppo impegnato a respirare” per pensare ad altro, ma anche quello di chi è impegnato a curare “e si trova sempre magari a dover intubare un collega”. 

Ne emerge un complesso di sensi di colpa per “non aver fatto abbastanza, per essersi magari infettato e non poter più lavorare”.  Se normalmente tutta l’attenzione degli psicologi è concentrata sui pazienti, il Covid ha costretto questa categoria a rivolgersi verso i medici: un tempo “i ruoli erano separati” e si teneva una certa “distanza”, tra camici e ‘strizzacervelli’, tra la scienza e la psicologia…“ora sono loro a ringraziarci di essere lì, insieme, sanno di avere bisogno di quell’aiuto che è anche solo in uno sguardo”. 

“Vivere nel reparto, condividere uno spazio di fatica”, parlare di “traumi ripetuti” come il veder morire così tanti pazienti ogni giorno è per le equipe un supporto necessario, tanto che il servizio è stato ampliato, su indicazione della direzione.  “E’ un momento in cui è importante negli ospedali mantenere l’ordine e la lucidità mentale, senza però interrompere la sfera emotiva – spiega ancora Damiano all’AGI -. E non pensare soltanto alle prime linee, ma anche alle seconde linee” del fronte. 

Sia chiaro: “Anche gli psicologi stanno sperimentando, perché nessuna tecnica è sufficiente da sola in questa situazione: percepiamo l’ansia generalizzata, una sospensione della spazio temporale” la cui tragicità sarà evidente alla fine della tragedia, quando bisognerà raccogliere le macerie. Gli psicologi del San Matteo lavorano insieme alle equipe sanitarie, ma lontano dalle aree a rischio contaminazione. 

“Scegliamo di non indossare lo scafandro proprio perché la nostra figura sia distinguibile: perché si comprenda che il tempo in cui interveniamo noi è tempo dedicato alla persona, non solo alla cura dei sintomi”. Fanno la spola, magari telefonica, con le famiglie che chiedono notizie; consegnano lettere “scritte di pugno dai figli dei malati”.

Assistono a scene in cui sono i pazienti a dare forza ai soccorritori: “Ci ha colpito molto, in questa assenza di contatto fisico, il gesto di un’anziana che tentava di fare una carezza ad una giovane dottoressa sulla maschera protettiva”. 

Vedi: "Così assisto i medici che vedono la gente morire". Il racconto dello psicologo in corsia
Fonte: cronaca agi


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