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Con Rahul l'India torna sotto il segno dei Gandhi?

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Rahul Gandhi, l’ultimo rampollo della dinastia politica Nehru-Gandhi, spera di scrivere una nuova pagina di storia riportando al potere in India il partito del Congresso.

Nel lungo processo elettorale che comincia domani e andrà avanti fino al prossimo 19 maggio​, Rahul, figlio, nipote e pronipote di primi ministri indiani, è alla sua prima grande sfida come leader dell’opposizione.

Figlio dell’italiana Sonia, vedova di Rajiv, Rahul, single 48enne, è da poco più di un anno alla guida del più importante partito indiano, culla della sua famiglia allargata, il cui destino glorioso e tragico si mescola con quello dell’India.

Un incarico che quando era entrato in politica, nel 2004, aveva rifiutato sostenendo di non sentirsi pronto. Adesso l’erede della grande dinastia politica si troverà di fronte alla formidabile macchina politica del partito nazionalista indù del premier uscente, Narendra Modi.

Il potere non è più un veleno

In tunica bianca, spesso con una barba di tre giorni, Rahul per diverso tempo è stato percepito come un dilettante: e invece ha studiato pazientemente all’ombra di sua madre Sonia e finalmente, quando ha assunto la guida del Congresso alla fine del 2017, si è buttato anima e corpo nell’arena politica indiana.

Sono lontani i tempi in cui paragonava il potere a un “veleno” e nei cablogrammi diplomatici americani veniva definito “un abito vuoto”.

Nato e cresciuto per governare, Rahul Gandhi ha dato diversi grattacapi negli ultimi mesi ai nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party (BJP), che hanno inflitto al Congresso una serie di umilianti sconfitte: ha impedito loro di prendere il controllo del Karnataka; inflitto una battuta d’arresto nelle regioni del Rajasthan, del Madhya Pradesh e del Chhattisgarh, tre Stati che saranno cruciali anche per le elezioni generali, e dove il BJP aveva fatto il pieno di voti nelle legislative del 2014.

Infine, nel settembre 2016, ha ingaggiato una violenta polemica con Modi sull’acquisto di 36 velivoli Rafale francesi: lo ha accusato di aver privilegiato, come partner del produttore francese Dassault, il conglomerato privato di un magnate indiano a spese di un’azienda pubblica.

Una polemica che non ha avuto strascichi legali ma che ha contribuito a offuscare l’immagine del premier, presentato come alleato dei ricchi e dei potenti.

Agli avversari viene facile attaccare il ‘principe’, rampollo di una delle più potenti famiglie del Paese ed educato in una bolla d’oro, in netto contrasto con le origini popolari di Modi.

I suoi detrattori gli hanno appiccicato un soprannome, “pappu”, che sta per idiota. E lui ha replicato in un discorso memorabile in Parlamento: “Puoi insultarmi, chiamarmi ‘pappu’, non ho una briciola d’odio verso di te”, ha scandito, prima di attraversare l’emiciclo per abbracciare un infastidito Narendra Modi.

Fedele seguace del Mahatma Gandhi, di cui non è parente,​ ​Rahul sostiene che è proprio il suo insanguinato passato che gli ha fatto capire che “la violenza non è mai la soluzione”.

Nato il 19 giugno 1970, il nome Gandhi gli deriva dalle nozze della nonna, Indira Nehru, figlia dell’eroe dell’indipendenza e primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, con Feroze Gandhi nel 1942. Era il nipote preferito di Indira e aveva 14 anni quando, nel 1984, la nonna fu assassinata dalle sue guardie del corpo Sikh, nella residenza dove il primo ministro viveva con la sua famiglia; 20 anni quando suo padre Rajiv fu ucciso in un attentato suicida nel 1991.

Pur traumatizzata da queste morti violente, la madre Sonia si fece convincere a prendere le redini di un partito moribondo e ne è rimasta alla guida fino al 2004, sostanzialmente governando nell’ombra il Paese per oltre un decennio.

Ora ci prova Rahul, che ha fatto della lotta alla povertà uno dei principali obiettivi della sua campagna elettorale. Il Congresso promette un reddito minimo garantito per 50 milioni di famiglie se vince le elezioni.

Vedi: Con Rahul l'India torna sotto il segno dei Gandhi?
Fonte: estero agi


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