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Cinquant'anni fa il sacrificio di Jan Palach, martire dell'Europa libera

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Per i sessantottini italiani, che voltavano le spalle a un Partito Comunista diventato sempre più istituzionale, bisognava fare come in Cina, o al massimo come a Cuba. Per i comunisti cecoslovacchi, che conoscevano quanto duro fosse il tallone dell’oppressione, il socialismo doveva invece avere un “volto umano”. A Ovest della cortina di ferro la socialdemocrazia era vecchiume borghese da contestare, a Est era un sogno di libertà. Libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di parola, libertà di movimento. Questo era il cuore delle riforme volute da Alexander Dubcek, salito nel gennaio 1968 alla guida del Partito Comunista Cecoslovacco.

Per Dubcek il socialismo non poteva essere incompatibile con la democrazia. E l’abolizione della censura e le liberalizzazioni dovevano solo essere l’inizio di un percorso che, in un decennio, avrebbe dovuto portare a un sistema multipartitico e a un’economia dove il lavoratore più meritevole potesse essere premiato senza intaccare la struttura collettivista dell’economia.

A Praga arrivano i carri armati

A Mosca la situazione iniziò a ricordare troppo la rivolta ungherese del 1956. Breznev, timoroso che il “socialismo dal volto umano” intaccasse la compattezza del blocco comunista, convocò Dubcek, che non mise mai in dubbio la sua lealtà al Comecon e al Patto di Varsavia ma non volle fare marcia indietro sulle riforme di quella che è passata alla storia come la “Primavera di Praga”. Avendo fallito con le buone, il Cremlino passa alle cattive. Nella notte del 20 agosto 1968 duemila carri armati e duecentomila soldati provenienti da URSS, Bulgaria, Polonia e Ungheria invadono la Cecoslovacchia. 

Dubcek ordina alla popolazione di non resistere per evitare il peggio ma l’occupazione sarebbe comunque costata 72 morti e centinaia di feriti. Nelle strade ci sono comunque sacche di resistenza spontanea. Alcune cellule anarchiche attaccano i carri armati con molotov e armi improvvisate. A decine di migliaia lasciano il Paese per emigrare oltrecortina. Il conto finale sarà di 300.000 profughi. La censura viene progressivamente ristabilita, la polizia segreta riottiene il potere che le era stato tolto. Dubcek sarebbe durato fino all’aprile 1969, per poi essere sbattuto in un bosco a fare la guardia forestale. 

Il mondo comunista si spacca

Le settimane successive all’invasione proseguono le manifestazioni di opposizione non violenta, come la rimozione dei cartelli stradali per confondere le truppe straniere. A non far scemare, in un primo momento, la speranza dei cecoslovacchi è la spaccatura che si verifica nel mondo comunista all’indomani della repressione della Primavera. la maggior parte dei partiti comunisti occidentali, tra cui il Pci, condanna l’intervento sovietico e inizia a discettare di “eurocomunismo”. In molti però, una volta rimosso Dubcek, sarebbero rientrati nei ranghi.

Alcuni Paesi dell’Est che non avevano partecipato all’invasione, come la Romania e l’Albania, criticano con durezza l’iniziativa del Cremlino. Perfino alcuni moscoviti hanno il coraggio di manifestare sulla Piazza Rossa mostrando solidarietà alla Cecoslovacchia. Verranno picchiati, arrestati e, in parte, internati nei manicomi. Ma a spiccare è soprattutto la condanna della “dottrina Breznev” giunta dal dittatore cinese Mao Tse Tung, che, con un programma nucleare ancora agli albori, temeva di poter essere a sua volta vittima di un attacco sovietico. 

“Torcia umana numero uno”

La solidarietà internazionale non ha però alcun effetto sulla vita dei cecoslovacchi, che vedono presto soffocata quella libertà che per poco avevano cominciato a respirare. Per invitarli a non rassegnarsi, uno studente di filosofia ventenne, Jan Palach il 16 gennaio 1969 si cosparge il corpo di benzina e si dà fuoco con un accendino nel cuore di Praga, piazza San Venceslao, di fronte al museo nazionale. Mentre brucia, attraversa la piazza di corsa, viene urtato da un tram e cade. I passanti provano a spegnere le fiamme con i cappotti. Prima di immolarsi, aveva inviato questa lettera ad alcuni esponenti politici:

Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà. 

Palach muore dopo tre giorni di lucida agonia. Non si sa ancora se quella cellula alla quale affermava di appartenere esistesse davvero. Ma nei giorni successivi altri ragazzi suoi compatrioti si sarebbero immolati nello stesso modo per dare seguito al suo sacrificio. Il 25 febbraio tocca a Jan Zajíc. In aprile a Evzen Plocek. Non saranno gli unici. Anche in altri Paesi del blocco sovietico alcuni studenti si sacrificheranno nello stesso modo. Il 15 maggio 1972 a Kaunas, in Lituania, il diciannovenne Romas Kalanta, fervente cattolico, muore come Palach per protestare contro l’oppressore sovietica. Solo nello stesso anno altre 13 persone avrebbero seguito il suo esempio. 

A darsi alle fiamme contro la repressione della Primavera, prima ancora di Palach, era stato il12 settembre 1968 il contabile polacco Ryszard Siwiec. C’è chi sostiene però che, a causa della censura, Palach non sapesse del gesto di Siwiec. Disse ai medici di essersi ispirato ai monaci buddisti. Ma il pensiero di Palach, mentre il fuoco lo avvolgeva, sarà forse corso anche a un altro martire boemo, il teologo Jan Hus, scomunicato e bruciato sul rogo nel 1415 per la sua opposizione alla corruzione della Chiesa, che anticipò la Riforma protestante.

Lo sfregio dopo la morte

In 600.000 da tutto il Paese vengono a rendere tributo a Palach in occasione dei funerali. La sua tomba diventa un luogo di pellegrinaggio, tanto da spingere l’Stb (la polizia segreta cecoslovacca) a esumarne il cadavere il 25 ottobre 1973, cremarlo e restituirne le ceneri alla madre, che solo l’anno dopo avrebbe avuto il permesso di depositare l’urna in un cimitero.

Il ventennale della morte di Palach dà la stura a una settimana di manifestazioni anticomuniste, dal 15 al 21 gennaio 1989, che avrebbero preceduto di dieci mesi la “rivoluzione di velluto” e alla caduta del regime. L’urna di Palach torna così nel luogo originale della sua sepoltura. Una croce di bronzo con il suo nome viene posta davanti al Museo Nazionale. Negli anni successivi altri ragazzi cechi si sarebbero dati alle fiamme, seppure non per motivi politici. Solo nel 2003 si contano sedici casi, cinque dei quali mortali.

Per anni un’icona solo a destra

In Italia, ma non solo, il movimentismo giovanile di sinistra di allora reagì con indifferenza, se non con malcelatà ostilita, al gesto di Palach, facendolo diventare patrimonio esclusivo della destra sociale e radicale. Nemmeno con la caduta del muro di Berlino e il graduale ingresso nella Ue delle nazioni dell’ex blocco sovietico Palach riesce a diventare un’icona trasversale. 

“La meglio gioventù diede il peggio di sé, fu cinica, indifferente, ottusa e, ciò che è più grave, non si è mai davvero vergognata per non aver saputo onorare il gesto di un coetaneo schiacciato da un’oppressione enormemente più feroce di quella patita nel libero Occidente”, ha ricordato sul Corriere Pierluigi Battista, “non fu versata una lacrima per Jan Palach, se si eccettua una canzone meravigliosa di Francesco Guccini”.

“Agitare il nome di Jan Palach era da «fascisti», questo ho sentito in quei giorni nella mia scuola romana, il Mamiani, cuore della contestazione studentesca”, prosegue Battista, “la meglio gioventù dimostrava sin da allora il suo volto ideologizzato, mosso da un’indignazione selettiva che chiudeva un occhio sulla repressione che angariava i Paesi finiti sotto il tallone sovietico. ll ricordo di Jan Palach si spense, nessun poster, nessuno striscione, nessun cartello ne fece un’icona di libertà, di coraggio, di protesta”. Cinquant’anni dopo il sacrificio di Palach non ricorda solo a tutti quanto caro possa essere il prezzo della libertà ma continua a interrogare la coscienza di una generazione.

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Fonte: estero agi


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