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Cinquanta sfumature di Agassi

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Inutile chiedersi se a cinquant’anni Andre Agassi odi ancora il tennis. Chi ha letto la sua autobiografia, Open, sa che quel verbo, odiare, non può essere sostituito da nessun sinonimo. È l’odio per il gioco che ha spinto Agassi a soffrire così tanto per ogni sconfitta e a godersi così poco le vittorie, alcune storiche, alcune magnifiche, che lo hanno reso uno dei giocatori più forti di sempre. Agassi giocava a tennis perché nella vita non avrebbe potuto fare nient’altro. E non per colpa sua. A sette anni, nel deserto del Nevada, non lontano da Las Vegas, aveva imparato ad affrontare, con la racchetta in mano, quello che chiamava “il drago”, dietro una rete più alta di 15 centimetri del normale. Lì, in piedi, mingherlino, provava a difendendosi dalle 2500 palline al giorno scagliate a velocità ultraterrena da quella macchina di metallo dalle sembianze mitologiche. “Il drago”, modificata dal padre, che sognava per Andre un futuro da tennista. Non un futuro felice, non un futuro sereno. Non un futuro alternativo. Ma un futuro da numero uno del mondo.

Un bambino senza infanzia

Emanuel Aghasi (o Aghassian) ha un ruolo decisivo in tutta questa storia. Una figura ingombrante e violenta, ossessionata dalla geometria e dal lavoro duro. In Iran, negli anni ‘40 è diventato un pugile facendo i conti con la povertà della sua famiglia, di origine assira ed emigrata dall’Armenia. Se Andre prova odio, suo padre prova rabbia. Sempre e contro chiunque. E con i pugni se la cava molto bene. Partecipa alle Olimpiadi, a Londra nel 1948 e a Helsinki nel 1952, ma non lascia il segno. Sono i giochi a lasciare un segno indelebile sulla sua personalità e nel suo modo di affrontare la vita. Si trasferisce in America, ottiene la cittadinanza e cambia il suo nome in Mike Agassi. Sposa una donna bellissima conosciuta a Chicago, Elizabeth, che è il suo esatto opposto: pacifica, sempre calma, una che raramente perde il controllo. Avranno quattro figli.

Si spostano vicino a Las Vegas ma abitano in prossimità del deserto perché Mike ha bisogno di una casa con un giardino enorme. Un giardino così grande da contenere un campo da tennis. Campo che costruisce lui stesso. Mike ama quello sport così tanto da organizzare incontri in cui il figlio stringe le mani a campioni come Ilie Nastase. Quando Connors è in città, Mike gli accorda le racchette e manda il timido figlio a portargliele. Andre, il più piccolo della famiglia, è la sua ultima speranza. È talentuoso, certo, ma scostante. Lo allena, urlando e minacciando, con metodi duri e con macchine, i mostri, che lo forgiano fin da piccolissimo.

Un giorno mentre padre e figlio sono in macchina, un camionista gli taglia la strada. Volano insulti e i due uomini si affrontano. Pochi attimi dopo “l’avversario” è riverso, esanime, in quella strada trasformata in un ring. A domanda secca “come fai a stare con lui”, la madre risponde ad Andre quasi senza battere ciglio: “È fatto così e finora non è né morto né in prigione”. Move on, insomma. 

Andre diventa sempre più forte e il padre inizia a credere al suo sogno americano. Nessun bambino della sua età risponde al di là della rete come lui, nessuno ha il suo gioco di gambe, nessuno ha la sua varietà di colpi. Vince, però, perché deve vincere. Non gli piace farlo. Più grande è la paura del fallimento. Odia, profondamente, perché nella sua vita non c’è altro che il suono della pallina sulle corde. Ma se la sua casa è un inferno, la scuola di Nick Bollettieri, a Bradenton in Florida, è peggio. Agassi nella pagine di Open la definisce come una vera prigione con pochissima vita sociale a disposizione dei ragazzi.

E poi c’è la scuola, lì accanto, che deve frequentare a malavoglia. Almeno fino a che non riesce a evitarla. Andre è un adolescente ribelle. Esserlo è l’unico modo che ha per provare a riprendersi la vita tra le mani. Una vita che altri hanno plasmato per lui. Non ama studiare, non gli interessa, rompe ogni regola dell’istituto: indossa orecchini e jeans strappati, si presenta con una lunga cresta rosa come acconciatura, e se ne infischia dell’autorità. C’è una sola materia che sembra interessargli: la letteratura. Scopre di aver talento, di scrivere facilmente persino delle poesie. Ma è solo uno spiraglio che si chiude di scatto. Scrivere non è giocare a tennis, non è materia d’odio ma d’amore. Impossibile, al momento. E scompare quasi del tutto, almeno fino a quando deciderà di pubblicare Open dove quel talento a “impugnare “ le parole, seppur guidato da mano esperta, esplode.

Il tennista “ribelle”

Di sfumature Agassi ne possiede tante. Ma invece che rappresentare la moltitudine della sua estroversa personalità, sono strati che si accumulano sopra la sua vera natura. E spingono così tanto da schiacciare sempre più in profondità il suo odio, la sua incapacità di amare ciò per cui vive, ciò che lo rende speciale. A ben guardare il giovane Andre, ribelli si diventi, non si nasca.

Nel 1987, insieme a McEnroe, deve scegliere cosa indossare tra le proposte del nuovo campionario proposto dalla Nike, con cui ha firmato un contratto di sponsorizzazione. “Mac ha preso su un paio di calzoncini jeans e ha detto: E questi che cazzo sono?”. Quei calzoncini jeans li prenderà e li indosserà Agassi, anche a Roma, generando un notevole shock tra gli amanti e i puristi del gioco.

Il suo desiderio di non sottostare alle regole lo porterà a snobbare, nei primi anni della sua carriera, sia Wimbledon, che sarà il primo titolo slam a vincere e il primo momento in cui guarderà davvero negli occhi la sua futura moglie Steffi Graf nel 1992, che gli Australian Open, dove si troverà alla fine molto bene. È una fornace quella australiana che gli ricorda il deserto del Nevada e dell’Arizona. Casa sua, certo, che da lontano ora sembra molto meno infernale.

C’è poi la questione capelli. Agassi è un Sansone all’incontrario. Prima l’incipiente calvizia, ennesima ragione d’insicurezza, che viene nascosta da un parrucchino. È nascosta così bene che la sua chioma diventa celebre in poco tempo e nessuno si accorge dell’inganno. Le ragazze la adorano, i maschi, forse invidiosi, la criticano. C’è chi scrive della sua vicinanza con il mondo punk che invece non apprezza, confessando di preferire Manilow. Poi nel 1995 arriva la pelata, agli Australian Open, che diventerà il simbolo (se non si conta l’anno di crisi con Brooke Shields, sua prima moglie) di un tennista più maturo, con meno pesi “in e sopra” la testa.

In uno degli ultimi anni sul circuito, Agassi viene intervistato da Vincenzo Martucci per la Gazzetta della Sport, a proposito di questa evoluzione: “Con Nick Bollettieri ero uno dei primi a giocare d’ anticipo, a esaltare forza e aggressività. Ero solo talento. Poi sono diventato più furbo. Adesso ho imparato lavoro e disciplina, e tecnicamente sono migliorato col dritto e col servizio. Quando sei giovane vedi la vita in modo diverso, poi impari a pensare di più a cosa e perché fai determinate azioni, ti fai delle domande e cerchi delle risposte”.

La cosa più importante per Agassi è la presenza, l’esserci, sentire che il suo corpo funziona: “La fisicità è l’aspetto maggiore del mio gioco. Per come io colpisco la palla, per come stringo la racchetta… Tutto, nel mio tennis, richiede fisicità”. Ogni infortunio, da quello congenito ad una vertebra, a quelli al polso, all’anca saranno una tortura alleviata solo dal cortisone, uno dei suoi più leali compagni di spogliatoio fino al ritiro, nel 2006.

Il tennista solitario e l’uomo “immagine”

È l’amore per le persone a compensare il suo malessere. L’entourage di Andre è sempre molto popolato, anche se c’è chi sale e chi scende dal suo carrozzone. I media non si perdono nulla della sua vita e della sua carriera. Fa notizia fuori e dentro il campo. Non è come Sampras, la sua nemesi tennistica di mille battaglie. Agassi è superficie, apparenza, immagine. Come lo spot della Canon mostrerà nel 1991.

Quello che il giocatore americano mostra, però, è solo una solida crosta terreste che serve a celare il magma che gli erutta dentro. Nel suo angolo si alternano Wendi, la sua prima ragazza, e Brooke Shields. Ci sono i suoi amici, il suo preparatore atletico di fiducia, i suoi allenatori, da Nick Bollettieri a Brad Gilbert. I suoi confidenti, i suoi amici. Ma in campo, alla fine, contro gli avversari, i draghi o i mostri, si è soli. Sempre.

E Andre è il più solo di tutti. “Soltanto i pugili possono capire la solitudine dei tennisti – anche se i pugili hanno i loro secondi e i manager. Perfino il suo avversario fornisce al pugile una sorta di compagnia, qualcuno a cui può avvinghiarsi e contro cui grugnire. Nel tennis sei faccia a faccia con il nemico, scambi colpi con lui, ma non lo tocchi mai, né parli a lui o a qualcun altro. Il regolamento vieta perfino che un tennista parli col proprio allenatore mentre è in campo”. Il riferimento al pugile non è un caso. Chissà se il pugile di casa, almeno una volta, ha compreso, o di contro ignorato, la solitudine del piccolo tennista in cerca di risposte.

C’è un momento, tuttavia, in cui Agassi si sente meno solo con la racchetta in mano. Quando gioca in Coppa Davis sembra fare meno fatica. Fa parte di una squadra, di un team. Il suo sogno. Allora non importa più il colore o la tipologia della superficie. Erba, terra, cemento. Ci sono le stelle e le strisce sopra ogni cosa. Quella è l’unica cosa che conta. Tutto diventa più divertente. Poi però la voce di suo padre che litiga con l’allenatore e lo trascina via da un campo da calcio, ancora bambino, risuona nelle sue orecchie, e tutto ridiventa silenzioso.

Andre è solo soprattutto quando le persone che ama scompaiono dalla sua vita. Anche la confessione di aver fatto uso di metanfetamine, l’ombra più grossa che si porta addosso, è da ricercare in quell’universo di solitudine chiamato tennis. Non è paura di non essere il più forte ma paura di non avere più niente per cui valga la pena lottare. L’entrata di Steffi Graf, di contro, è stata quella luce capace di riportare l’equilibrio dentro al caos: “Di certo ho imparato molto da lei, come imparo da tutti. Steffi e io siamo simili e complementari: come me ha dedizione assoluta, capacità di concentrazione, passione e velocità, e finalmente mi calma, mi dà stabilità e forza”. Un’ottima ricetta per combattere l’odio.

 Andre e Pete

Quella con Sampras fu la rivalità principale degli anni ’90 del tennis mondiale. Viene alimentata anche da uno spot del 1995 che li vede protagonisti mentre giocano insieme per le strade di New York.

Agassi non odiava Sampras. In 13 anni si sono sfidati 34 (20-14 per Pete) e 5 volte in una finale di uno slam (4-1 per Pete). Il loro primo incontro è a Roma, agli Internazionali d’Italia, nel 1989. Vince facile Agassi 6-2 6-1. Ma “Pistol Pete” era ancora acerbo e in cerca di una identità. Non si piacevano troppo, forse, ma si rispettavano. Del resto uno era nato in Nevada e l’altro nel Maryland. Uno era così potente al servizio e l’altro così efficace in risposta. Uno giocava con il rovescio bimane, l’altro con il rovescio a una mano. Uno adorava le volée, l’altro preferiva il fondo campo e la battaglia. Tesi e antitesi. Dritto e rovescio.

I due si sono incontrati, di sfuggita, da bambini, ma hanno avuto vite diverse e stili differenti. Erano compagni nella squadra di Davis americana ma poco avevano in comune fuori dal campo. Un giorno Andre lo porta a Broadway a vedere Grease dove recitava Brooke Shields: “Lo vedevo sbadigliare e guardare l’orologio. Mi ha dato quasi più soddisfazione vederlo così che batterlo sul campo”. Ma la differenza più grande resta un’altra: uno amava il tennis e l’altro l’odiava. Ed è un dettaglio che può cambiare tutto

Le vittorie

La storia di Agassi insegna che non è solo l’amore a far vincere i campioni. Anche l’odio, quando supportato dal talento, porta a riempire mensole e bacheche. La volontà di rivalsa, spesso temporanea a volte eterna, su alcuni suoi colleghi come Munster e Becker, l’invidia per Chang e Sampras, colpevoli di aver vinto un torneo dello slam prima di lui, condizioneranno sempre i suoi match. Il suo, però, è un palmares di primissimo piano: 8 tornei dello slam (e uno dei pochi ad aver completato il career slam, ovvero vincere tutti e 4 i principali tornei del circuito in carriera), 60 titoli (17 master series), 101 settimane da numero uno delle classifiche, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atlanta 1996. Tutti trionfi che l’hanno portato ad essere introdotto nella Hall of Fame del Tennis nel 2011.

Agassi è stato anche  un grande innovatore del gioco. Pochi nella storia hanno cambiato la tecnica per sempre. Come Borg, McEnrore, Nadal, Agassi ha cambiato la tecnica per sempre. Giocava quasi ogni colpo di controbalzo, impattava la pallina subito dopo il rimbalzo, all’inizio della fase ascendente, riuscendo, anche grazie all’impugnatura apertissima, a imprimere un’accelerazione fortissima e angoli impensabili. Nadal e Djokovic, da questo punto di vista, sono figli suoi. Giocava a ping pong su un campo da tennis, sfruttando come solo McEnroe prima di lui (ma giocando piatto) era riuscito a fare la velocità del colpo avversario. Con lui più tiravi forte più la palla ti tornava indietro veloce e violenta per effetto del controbalzo. Era ingiocabile per tutti quelli che erano abituati a tempi di impatto classici, con la palla all’apice della parabola. Quella sua tecnica lasciò il segno, nulla sarebbe stato come prima. Nemmeno nelle scuole tennis”.

La vittoria alle Olimpiadi, ben 44 anni dopo l’apparizione di Emanuel Aghassian a quelle di Londra, è stato uno degli apici emotivi della sua carriera. “Ricordo il successo, l’essere in finale contro lo spagnolo Sergi Bruguera. Ricordo il caldo, com’era la situazione lì ad Atlanta, 39 gradi con un’umidità pazzesca, subito dopo un acquazzone. Ricordo come ringraziavo la preparazione fisica per sopportare tutto ciò. Poi ricordo l’essere su quel podio e ricordo la sensazione di averlo visto un sacco di volte negli anni, cosa può sentire qualcuno quando ha quella medaglia d’oro attorno al collo. Le lacrime scesero dai miei occhi con mio padre tra il pubblico, mio padre che partecipò ai Giochi come pugile, quindi ho sentito tutto ciò a più livelli”. 

“Andreino”, come lo chiamava Gianni Clerici, oggi ha cambiato la sua vita. È diventato allenatore e mental coach, oltre a essere padre di due bambini. La sua fondazione ha aperto più di 60 scuole diffondendo l’importanza di una buona istruzione. In un’intervista ha confessato che per scrivere Open ci ha messo 30 anni riuscendo a dargli forma solo grazie all’aiuto di un premio Pulitzer come Moehringer: “Scriverlo è stata una terapia che mi ha cambiato profondamente e mi ha connesso agli altri, soprattutto all’argomento che era il più ostico: me stesso”.  Insomma, se l’odio per il tennis non è scomparso, neanche a cinquant’anni, l’amore per la vita lo ha, anche se tardivamente ricompensato. David Foster Wallace ha descritto così il suo gioco: “Una delle cose che rendono Agassi tanto forte è che riesce a mettere a segno colpi vincenti da ogni parte del campo – non ha restrizioni geometriche”. La stessa geometria da cui tutto è partito in una casa con un giardino enorme da qualche parte vicino a Las Vegas.

 

Vedi: Cinquanta sfumature di Agassi
Fonte: sport agi


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