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"C'è stata una diminuzione della nostra intelligenza", dice Crepet

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Uno studio Nomisma rivela che durante il lockdown oltre il 60% degli italiani non ha perso reddito e ha speso meno del solito. Una liquidità che va ad aggiungersi ai 1.200 miliardi complessivi che sono fermi da anni sui conti correnti bancari. Si tratta di una riserva di denaro che si potrebbe ora rimettere in circolo per galvanizzare i consumi depressi dal Covid-19 e sostenere il rilancio dell’economia reale.

Dall’altro lato, però, questi otre due mesi sono stati vissuti all’insegna di un consumismo sotto traccia, coatto, forzato, che però è cambiato nelle forme e nella sostanza. Anche se c’è che c’è stato un crollo negli acquisti del 31%, secondo Confcommercio.

Qual è stato, allora, l’impatto psicologico sui consumi in questo periodo di quarantena forzata? Abbiamo rivolto la domanda al professor Paolo Crepet, psichiatra e sociologo dei comportamenti individuali e di massa. “C’è stata sicuramente una selezione – risponde Crepet – che, tra l’altro, per l’Italia è stata anche molto diversa se si prende come riferimento la sola l’Europa”.

In che senso, professore?

“Nel senso che i consumi sono differenti. Per abitudini e attitudini, mentalità, stili di vita. Da noi, durante l’emergenza coronavirus, c’è stato un eccesso di consumo alimentare, dovuto essenzialmente all’idiozia d’aver parlato della pandemia come di una guerra. Ciò ha prodotto una corsa all’accaparramento d’ogni bene, specie se alimentare, con i carrelli pieni d’ogni bendidio come se il mondo dovesse finire. Il cibo come bene-rifugio ma per gran parte prodotti inutili o non necessari, adesso!”.

Accaparramento per paura. È la motivazione psicologica profonda?

“Da un lato c’è stata una sorta di consolazione di massa attraverso il bene materiale alimentare, rispetto a ciò che si perdeva in termini emotivi. Abbiamo riversato sulla pasta, il vino e la pummarola tutto quel che abbiamo perso in relazioni, amicali, amorose, parentali”.

Cibo e vino come surrogati affettivi, dunque. E in che modo l’abbiamo fatto?

“Principalmente per via tecnologica. È aumentato tutto quel che è possibile acquistare online. Che è ormai quasi tutto, comprese piccole cose da vestire. Non dico il capo di Valentino, ma abbigliamento di necessità. Fascia di largo consumo è stata la tecnologia. Nei piccoli centri cittadini, nei paesi, non è più possibile trovare un solo computer da acquistare. Esauriti”.

In questi mesi gli italiani sono diventati consumatori digitali.

“Esattamente, ampliando una fetta di mercato. Tutte le persone anziane che fino al giorno prima del lockdown non avevano dimestichezza o propensione con gli strumenti tecnologici l’hanno avuta, li hanno scoperti. Anche per ovviare alla clausura. E alle carenze, non solo di libertà. Poi è evidente che ci sia anche una funzione di utilità, essendo magari il computer l’unico modo per poter salutare e vedere il nipote, collegandosi, o gli amici. Ci siamo ulteriormente digitalizzati. Che può essere un bene”.

Professore, cosa l’ha colpita di più del carattere degli italiani in questo frangente?

“Una sorta d’inerzia. Di apatia. Mi sarei aspettato, anche se è vero che da casa tutto diventa difficile, che i social – che sono presenti massicciamente nella nostra vita – anziché usati per insultarsi, fossero stati utilizzati per proporre qualcosa di positivo, innovativo. Pensavo che un movimento interessante come le Sardine potesse essere in qualche modo convertito in un movimento di giovani che propone un mondo diverso e invece, di fatto, è sparito”.

S’è dato una spiegazione del perché?

“Esistevano solo nella piazza reale mentre in quella virtuale si disperdono. Forse perché sono un movimento di forte relazione che vive sono nel contatto diretto, concreto. Ma il sentimento di forte apatia espresso dagli italiani sono convinto che lo pagheremo a caro prezzo”.

Si spieghi.

“Perché è il risultato di una mancanza di progettualità e potrebbe avere non tutti i torti chi dice – come il filosofo francese Badiou – che dopo il coronavirus tutto tornerà come prima. Anche se non è così. Però temo che sarà un po’ così anche se mi sembra una frase un po’ esagerata, azzardata”.

Quindi ci confermiamo una società un po’ a rimorchio? E di cosa, principalmente?

“Sì, siamo una società che è ancora più fortemente individualizzata di quello che poteva essere prima, e già lo era molto. Siamo a rimorchio dell’andazzo… E in qualche modo questo stato di cose lo rispecchia la morte dei partiti. Non esistono più, non ci sono più movimenti. C’è forse qualche leader che parla ma non di più”.

E questa forma di individualismo s’è riflessa anche sui consumi?

“Sì, perché ognuno si accontenta di ciò che ha e non vuole altro, in termini non materiali intendo”.

Forse si può dire che il coronavirus si è abbattuto sulla bulimia dei consumi.

“Sì, l’ha calmierata. Ma ha fatto anche qualcosa di più. Ciò che temo, nel cambiamento, è che non tutto rimarrà come prima. Secondo me qualcosa a livello spirituale potrà cambiare. E questo credo sia un problema. Ci divideremo e non saremo affatto tutti uguali. Ci sarà chi cercherà una spiritualità e chi invece si accontenterà di quel che c’era prima, cioè di quel “prima” fatto dal consumismo pasoliniano di cui da più di 40 sentiamo parlare”.

Possiamo dire che il coronavirus ha messo in qualche modo in evidenza i limiti dello sviluppo?

“In una certa misura sì. Un primo punto riguarda proprio lo sviluppo sbagliato,  quello che noi immaginavamo dovesse esserci dopo il boom economico degli anni ‘60, che aveva creato – lo diceva proprio Pasolini – un popolo di consumatori abbastanza acritici che si accontentavano semplicemente di consumare, anche compulsivamente. Poi ci sono state invece risorse per farlo e così lo abbiamo fatto. E questo ha portato con sé una serie di conseguenze: come l’aver ignorato sempre di più il valore della formazione, del merito, perché tanto il benessere veniva distribuito comunque e senza sforzi. Come una Spa che paga dividendi anche se non hai personalmente fatto nulla. E questo ha fatto pensare che si potesse anche vivere così, senza nessun lavoro, impegno”.

Ma anche il lavoro e il modo di lavorare è cambiato parecchio.

“Il lavoro, in realtà, è diventato un optional. Perché al posto nostro lo fa la tecnologia, che ci è venuta incontro e a lei ci siamo affidati o legati. Si lavora sempre di meno, ciò che ha sviluppato tutta una serie di attività che sono poi quelle che hanno portato a una sorta di degenerazione delle forme dei comportamenti e dei consumi. Tutto s’è massificato. Il turismo è di massa, l’alcolismo è diffuso, le droghe anche. E tutto è nato da una interpretazione sbagliata degli anni ‘60. Che sono stati tuttavia anni di grandissima qualità, dal punto di vista creativo, ma da lì in avanti c’è stato un cambiamento in termini virali della natura stessa della nostra società”.

Una cosa però il Covid ha messo in crisi: è il concetto di massa.

“Credo che questo la gente non l’abbia capito perché come si vede in queste ore, appena ha potuto, è tornata a fare esattamente quel che faceva prima. Gli assembramenti dei giovani sui Navigli a Milano piuttosto che al Pincio a Roma sono la chiara ed evidente dimostrazione che nel frattempo siamo diventati anche abbastanza scemi. C’è stata una diminuzione delle nostre capacità intellettive, della nostra intelligenza. Non si può andare vicino alla gente e assembrarci senza mascherina, però è quel che abbiamo fatto. Lo stanno facendo i giovani, che dovrebbero essere anche i più informati, impauriti. Giovani che magari hanno pure perso un nonno, qualcuno di caro in famiglia. Ma questo è anche il prezzo che paga la società del tempo libero”.

Vedi: "C'è stata una diminuzione della nostra intelligenza", dice Crepet
Fonte: cronaca agi


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