di Giampiero Gioia

Parlare oggi di dibattito culturale vuol dire soprattutto parlare di accesso ed esclusione dal dibattito stesso. Il riferimento è alla composita riflessione che da anni si svolge attorno alla c.d. cancel culture, ovvero quel fenomeno di ostracizzazione dalla discussione pubblica dei soggetti che abbiano espresso posizioni in contrasto con determinati valori sociali.

Il tema, sviluppatosi inizialmente nel contesto accademico e mediatico statunitense, ha avuto come bacino culturale di riferimento tutto quell’universo politico legato alla destra conservatrice woke, con l’obiettivo di puntare i riflettori sugli effetti esclusivi causati dall’egemonia valoriale liberal. Ricadono in questo girone, ad esempio, le vicende legate alla rimozione della statua di Thomas Jefferson dalla New York City Hall in quanto, a suo tempo, proprietario di schiavi; così come la decisione di HBO di rimuovere il film Via col vento dal proprio catalogo perché ritenuto razzista; o ancora alla denuncia della giornalista Bari Weiss di essere stata costretta a dimettersi del New York Times per via delle proprie posizioni politiche di stampo conservatore.

Il Vecchio continente e insieme l’Italia, non sono stati certo immuni al fenomeno, così che anche da noi si è incominciato a parlare di cancel culture, spesso nella sua forma di “dittatura del politicamente corretto”. La denuncia è, insomma, quella per cui – così come oltreoceano – anche in Italia l’accesso al dibattito culturale sarebbe condizionato al rispetto di un’etichetta irricevibile, ossia quella secondo la quale “non si può più dire nulla”, a pena di essere esclusi definitivamente dal consesso culturale.

Se questa non è la sede per ripercorrere compiutamente tutte le vicende legate al dibattito sulla cancel culture in Italia, sembra però il contesto idoneo per sollevare alcune questioni che, seppur non dirimenti, potrebbero aiutare ad impostare l’analisi in maniera più consona.

Il punto è che il concetto di cancellazione appare abusato, compromettendo così tutte le necessarie operazioni di distinguo che debbono essere svolte per giudicare i singoli casi e con ciò permettere un bilancio complessivo. Tale abuso è da rinvenire nella circostanza per cui, a mezzo della categoria della cancellazione, si giunge piuttosto ad una sovrapposizione indebita fra il concetto di censura e quello di legittimazione.

Difatti, quasi sempre il soggetto che ritiene di essere stato cancellato intende denunciare un presunto caso di censura, laddove invece – a ben guardare – si è semplicemente di fronte ad un caso di perdita di legittimazione. I due fenomeni, per quanto eventualmente simili, sono da ultimo radicalmente differenti. Per fare un esempio chiarificatore: lo scienziato che pubblicizzando tesi eccentriche e infondate su di un virus perda l’accesso a determinati canali comunicativi è semplicemente uno scienziato che ha perduto la propria legittimazione pubblica, non un soggetto vittima di censura.

Questo argomento appare rilevante nella misura in cui permette di evidenziare l’elemento relazionale del dibattito pubblico, nel quale la legittimazione e il riconoscimento reciproco appaiono due requisiti fondamentali. Nel momento in cui si rifiutano tali presupposti, l’esposizione pubblica – e di conseguenza la denuncia della perdita della sua possibilità – abbandona il proprio intento comunicativo e diventa esclusivamente azione egoriferita, tesa all’accaparramento di followers reactions, completamente slegata dalla comprensione dell’altro, anche laddove ciò implichi uno scontro di tipo politico.

Ecco perché l’abuso del concetto di cancellazione appare un fattore di mistificazione che – alla lunga – si dimostra più utile al presunto oppresso che al ritenuto oppressore, nella misura in cui la denuncia è capace di attirare l’attenzione mediatica ed accrescere il seguito del cancellato. Viene in mente, sul tema, il post pubblicato del Prof. Alessandro Orsini sul proprio profilo Facebook con il quale annunciava il proprio abbandono del quotidiano Il Messaggero, lasciando intendere che fosse una scelta obbligata a causa di conflitti fra la linea editoriale del giornale e le posizioni espresse pubblicamente dal sociologo in merito alla guerra in Ucraina: “Oggi ho lasciato Il Messaggero. Mi scuso con tutti coloro che avevano sottoscritto un abbonamento soltanto per leggere i miei articoli”. Denuncia di cancellazione, dunque; se non fosse che l’esclusione dal dibattito pubblico sia durata soltanto un paio di giorni, il tempo di annunciare l’avvio di una collaborazione con il Fatto Quotidiano.

Tutto ciò per dire che, troppo spesso, sotto il cappello di un concetto presuntamente recente (quello della cancel culture) sono ricompresi fenomeni i quali, in realtà, hanno poco o nulla di nuovo (sul punto v. un recente contributo di Raffaele Alberto Ventura); e che, soprattutto, la denuncia di esser stati cancellati proviene frequentemente da attori culturali che hanno, invece, libero accesso al dibattito pubblico.

Questo ridimensionamento certo non elimina le criticità legate ad una pericolosa ipersensibilità contemporanea – di cui la cancel culture è espressione – che spinge ad appiattire la dimensione storica delle vicende sociali e umane (si pensi a quanto accaduto al corso universitario su Dostoevskij di Paolo Nori, cancellato dall’Università Bicocca di Milano per via delle origini russe dello scrittore oggetto di studio).

Aiuta, tuttavia, a comprendere che il dibattito culturale e politico abbisogna di un riconoscimento reciproco e che tale riconoscimento non può prescindere dalla condivisione, nel presente, di alcuni valori fondamentali, specie da parte di chi – a vario titolo – ritenga di svolgere un lavoro di tipo intellettuale. Fuori da tale condivisione appare inevitabile l’impossibilità di qualsiasi dialogo o, se vogliamo, la cancellazione.