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Aspettavamo un '29. E invece sta arrivando un '45

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Tutti pronti a scommettere su un ’29, e invece arriva un ’45. È vero: Wall Street è in sofferenza come mai dal 1987, piena Era Reagan. Non parliamo poi di altre borse e listini a noi più vicini. Ma il fatto è che quel Grande Tracollo (temuto, paventato, da qualcuno sotto sotto auspicato) non è mai arrivato, e tutte le botte prese nel frattempo non hanno avuto quella funzione catartica che gli irriducibili nemici dell’iperliberismo desideravano avesse. Perché sempre, a partire dal 1987, Wall Street ed i suoi gnomi si sono pervicacemente ripresi il controllo delle leve economiche, e addio speranze dei socialdemocratici di ogni età e latitudine.

Sotto Reagan fu la Strage degli Incoscienti e finì l’epoca degli Yuppies, la figura social-economica più supponente mai generata dal capitalismo in versione ruggente. Poi però la corsa riprese, non senza un sospetto di doping sotto forma di abbattimento delle altrui garanzie lavorative, e così è stato anche nel 1998, con la crisi finanziaria delle tigri asiatiche che ruggivano spaventosamente da cinque anni. Lo stesso 2001, con la bolla di sapone delle dot-com. Finisce la New Economy? Chi se ne importa: stasera un party da Jordan Belfort, il nipote di Gordon Gekko, e sarà uno sballo.

Nemmeno con la botta epocale dei sub-prime del 2008, e con i dipendenti della Lehman Brothers che escono dal loro palazzo con l’espressione dei tedeschi a Stalingrado, le cose sono cambiate di un pollice. Nulla, nulla, fino a quando il battito d’ali di un pipistrello in Cina non ha provocato il proverbiale sconquasso dall’altra parte del mondo. Ed ora tutti lo sanno: quando questa storia finirà i sette pilastri della saggezza economica andranno puntellati, rinforzati se non addirittura sostituiti come le cariatidi dell’Eretteo. Quella attuale è una guerra, e alla fine nascerà un Nuovo Ordine Economico.

Guerra e ricostruzione

È davvero una guerra, come gridava Crozza facendo il verso a Grillo? Pare di sì. Chi nutre dubbi in proposito scorra le pagine di “Contro un nemico invisibile” di Carlo M. Cipolla. È la descrizione di quello che ti combinò la peste del 1630 (quella manzoniana) quando scese in Toscana. Un rapido spoiler: Montelupo fece come l’Italia, Firenze come Trump quando vuole pagare un miliardo per tenersi tutto per sè il vaccino dei tedeschi.

Le guerre hanno una sola qualità: finiscono. E poi è il turno dei ricostruttori. Nel 1945 l’Italia ebbe De Gasperi, ad un certo punto. Di quello che ha fatto gli sono tutti grati, ma bisogna dire che lui fu aiutato dal contesto internazionale.

Innanzitutto l’Italia si trovò dalla parte giusta del mondo. Il bolscevismo partiva dalla periferia di Trieste e scorreva placido e letale fino a Vladivostok. Di qua, invece, le democrazie ed un’economia capitalista rivista attraverso il prisma del New Deal rooseveltiano. Eh sì: il ’29 quella volta non era passato invano. L’ordine internazionale di Potsdam e Yalta era doloroso, lo si chieda alla Germania, ma necessario e soprattutto funzionante. Ad esso faceva da specchio un nuovo assetto economico forgiato in una ex piantagione di schiavi neri ed in un albergone del New Hampshire.

La nuova alba di Bretton Woods

A Dumbarton Oaks, che sorge sul limitare di Georgetown a Washington, e a Bretton Woods, dove fu deciso di infilare 800 delegati sotto un unico tetto a far capire al mondo la grandezza d’America, si stabilirono nuove regole. Anzi, si stabilirono delle regole, ed era la prima volta nella storia dell’uomo. Uno sbarco sulla Luna.

Nel dettaglio: costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, organismi internazionali destinati a concedere prestiti, il primo a breve scadenza e a carattere monetario, il secondo a lunga scadenza e allo scopo di incrementare la produttività. Set di norme stringenti per il commercio. Gabbia contro la fluttuazione dei cambi. Soprattutto era stato stabilito che l’economia mondiale è un bene comune, e comunemente va gestita. Non a caso, dal punto di vista internazionale, si gettavano contemporaneamente le fondamenta delle Nazioni Unite. Tutto si tiene.

Quell’ordine economico internazionale durò fino al 1970, quando Nixon sganciò il dollaro dalla convertibilità in oro e mandò tutto a carte e quarantotto. Intanto però il Pianeta aveva vissuto la piu’ ampia e generale espansione economica dai tempi del Giurassico. Torneremo a sorridere, come diceva Don Camillo guardando l’alluvione del Polesine? Presto per dirlo; accontentiamoci intanto della cronaca di oggi. E del presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno: conferma la disponibilità politica ad allargare al massimo le maglie delle regole per consentire agli stati membri di utilizzare al massimo la leva della spesa.

“Presenterò una dichiarazione che espone una risposta politica coordinata dall’Unione europea che include iniziative per contenere e curare la malattia, sostegno di liquidità alle imprese, in particolare le Pmi e sostegno ai lavoratori e alle famiglie”, dice, e con queste parole indica il nuovo campo di battaglia. Perché la fase bellica è solo agli inizi, e quando si tratta di combattere non si puo’ pensare solo alle conseguenze politiche della pace. Bisogna realizzare un’economia di guerra, e non a caso il modello evocato da Ursula von der Leyen è proprio quello. Che il medium incaricatosi di evocare il fantasma sia di madrelingua tedesca non è affatto un caso.

Il ritorno della “Kriegswirtschaft”

Chiediamo scusa: dobbiamo usare dei nomi che fanno paura nella loro stridente sonorità. Il primo è Kriegswirtschaft, e vuol dire appunto economia di guerra. Chi ebbe l’intuizione? Il Reich guglielmino, fino ad allora liberista fino al midollo. Ma la Prima Guerra Mondiale andava male, la società tedesca non reggeva più lo sforzo bellico e la tenuta interna era allo stremo. Era il 1918. Lo Stato, per dirla marxianamente, assunse allora il controllo dei mezzi di produzione (in altre parole: il controllo delle fabbriche) e razionò insieme ai viveri anche le libertà imprenditoriali, creando una economia dirigistica volta al raggiungimento della vittoria finale. Che non arrivò.

La strada comunque era spianata, ed il tarlo dell’intervento del pubblico nella competizione tra attori economici ormai una rosicchiante realtà nelle teste più brillanti della nuova stagione che si apriva. Tanto che (secondo spaventevole termine) c’è chi sostiene che questo Kriegssozialismus, questo socialismo di guerra, sia sopravvissuto sotto mentite spoglie per quasi tutto il Novecento. Almeno fino alla supply-side economy di Ronald Reagan e questo permetterebbe di chiudere il cerchio.

Ma un arco di cerchio ancora deve essere disegnato sul foglio, perché la teoria economica contemporanea, a sentir parlare di economia di guerra, lancia l’altolà. Si sostiene, infatti, che l’economia dirigistica applicata a frangenti estremi come l’attuale porti ad un controllo più o meno forzoso sul risparmio privato, ad una contrazione della varietà della produzione, ad una compressione dei consumi interni. Infine, ad un ricorso eccessivo della spesa pubblica grazie all’immissione nel sistema di moneta stampata ad hoc. In altre parole: inflazione. È successo agli stessi americani, al tempo della guerra del Vietnam. Alla fine Nixon fece saltare il sistema di Bretton Woods. E davvero qui il cerchio si chiude.

Non sappiamo cosa sarà il nuovo ordine mondiale del futuro, ma del disordine attuale conosciamo bene una cosa: uscirne non sarà una passeggiata.

Vedi: Aspettavamo un '29. E invece sta arrivando un '45
Fonte: cronaca agi


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