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Pensare di usare la scuola, il luogo dove ognuno trova il proprio posto nel mondo, come unità di misura per valutare l’accesso al Reddito di cittadinanza appare surreale per diverse motivazioni

La scuola è il luogo dove ciascuno di noi trova il proprio posto nel mondo, l’anima della società dalla notte dei tempi, simbolo della capacità di uno Stato moderno di fornire ai propri cittadini – e in definitiva a sé stesso – gli strumenti per affrontare una realtà via via più complessa e specializzata. Al contempo, gestibile solo attraverso una formazione che sappia curare i più diversi aspetti dell’individuo.

Pensare di usare la scuola, la cui missione e ragion d’essere è quella appena esposta, come unità di misura della valutazione per l’accesso al Reddito di cittadinanza appare surreale. Nella migliore delle ipotesi. Che una proposta del genere, poi, venga direttamente dal ministro dell’Istruzione (e del Merito) lascia basiti e per un bel po’ di motivazioni. Innanzitutto, parliamo di una misura – il Reddito di cittadinanza – di cui il governo ha appena annunciato l’abolizione da qui a 12 mesi e il sostanziale blocco subito dopo la prossima estate. Legittimo chiedersi, dunque, perché affrontare ora e in questo modo il tema. Appare come minimo superfluo, ancora, tirare in ballo la questione dei troppi percettori a bassa o bassissima scolarizzazione, nel momento in cui l’idea stessa all’origine del Reddito viene confutata alla radice per precisa scelta politica.

Resta, così, soltanto tutta la meraviglia per la palese incongruenza del ragionamento del ministro Valditara. Prendiamo pur per buona la sua idea di selezionare i percettori del Reddito in base ai titoli di studio conseguiti: ma come, mettiamo in piedi una specie di selezione all’ingresso come in discoteca e neghiamo una forma di sostegno economico proprio a coloro che ‘vantano’ il più basso livello di istruzione? Non si riesce a scorgere il senso di una trovata del genere, nel momento in cui dovremmo preoccuparci più che mai proprio di questi cittadini, nel tentativo di sostenerli nella necessaria formazione.

È proprio la mancanza di cultura, delle “basi”, la punizione più severa e la condizione di partenza oggettivamente più sfavorita che possa esistere. Che facciamo, la sottolineiamo e ci mettiamo un bel carico da novanta, tanto da far apparire queste persone sempre più ‘diverse’, arretrate e fuori dei giochi? La verità è che non vogliamo neppure pensare che il ministro Valditara possa aver seguito un ragionamento del genere. Molto più probabile che (come tanti altri prima di lui) sia finito schiavo della maledizione della realtà da piegare a tutti costi a un’ideologia.

Il Reddito di cittadinanza – che su queste pagine abbiamo sempre osteggiato, chiedendone la cancellazione immediata e non fra un anno – non può essere combattuto in questo modo. Fra tutte le criticità evidenti, sfugge perché sottolineare come il Reddito sia spesso finito nelle tasche dei meno scolarizzati. Innanzitutto, la scoperta in sé risulta ai confini del ridicolo (è abbastanza ovvio che le persone con titoli di studio più bassi facciano più fatica a trovare lavoro, in special modo nel mondo di oggi). Ciò che dispiace è veder utilizzato in modo così improprio lo strumento della preparazione e della formazione. Tutto questo parlare di merito, l’inserirlo nella denominazione del Ministero stesso con il grande dibattito che ne è conseguito e poi ci ritroviamo a confrontarci con la solita idea di scuola per titoli. E che nei titoli (in questo caso per accedere al sussidio!) sembra avere la sua unica ragion d’essere.

Diplomi e titoli, peraltro, ottenuti in un sistema scolastico del tutto incapace – fatte salve le consuete eccellenze – di misurare ciò che realmente il mondo del lavoro considera fondamentale nella selezione di talenti giovani e meno giovani.

Di Fulvio Giuliani 

Fonte: La Ragione