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Arrestato il "jihadista pasticcione" che nemmeno l'Isis sopportava

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I civili siriani li chiamano con disprezzo “turisti”. Sono gli stranieri che negli anni scorsi sono accorsi in Iraq e in Siria per combattere tra le file del Califfato del terrore. Alcuni sono arabi di seconda o terza generazione, come il famigerato ‘Jihadi John’, il kuwaitiano naturalizzato britannico responsabile della decapitazione di diversi ostaggi, che sarebbe stato ucciso da un drone a Raqqa nel 2015. Altri sono figli del ricco Occidente che hanno scelto di unirsi all’Isis per noia o per un malinteso gusto dell’avventura, giovani benestanti e viziati che cinquant’anni fa avrebbero scelto con la stessa sconsideratezza di darsi alla lotta armata o, nella migliore della ipotesi, andare in India a ritrovare loro stessi.

E sono soprattutto “turisti” gli ultimi miliziani di Daesh catturati in questi giorni dalle forze curde nella sacca di Deir Ezor, ultima ridotta del sedicente Stato Islamico. “Turisti” come il neozelandese Mark Taylor, salito agli onori della cronaca non per la sua spietatezza ma per essere stato sbattuto in carcere almeno tre volte dalle autorità del Califfato, dopo essersi reso indegno dello stendardo nero dell’Isis con comportamenti decisamente poco consoni al verbo intransigente di Abu Bakr al-Baghdadi, quali produrre alcolici artigianali e fumare hashish.

Lo zimbello degli altri miliziani

L’episodio più celebre, che fece guadagnare al quarantaduenne l’appellativo di “mumbling jihadi” (jihadista pasticcione), risale al 2014, ovvero poco dopo il suo arrivo in Siria, quando pubblicò alcuni tweet propagandistici nei quali invitava i confratelli in Australia e Nuova Zelanda a compiere attentati. Tweet pubblicati senza prima, però, disabilitare la localizzazione geografica, consentendo così di individuare la posizione del covo dei terroristi. 

New Zealander ISIS fighter accidentally tweets secret location http://t.co/F8YVF1tcTv

— TIME (@TIME)
2 gennaio 2015

L’incidente si ripetè ben 12 volte, finché il suo account non fu sospeso (era l’epoca in cui Twitter era nel mirino per la disinvoltura con la quale i jihadisti riuscivano a utilizzare il social network per fare propaganda). “Nel gennaio 2015 fui convocato con una lettera da uno degli ufficiali”, ha raccontato Taylor ad Abc dal carcere curdo dove è oggi prigioniero, “mi portarono in una stanza, mi tolsero la mia arma e ogni altra cosa, compreso il mio telefono cellulare, che non avrei più visto, e mi dissero che ero sospettato di aver contribuito a localizzare via Gps 12 luoghi all’interno dello Stato Islamico”.

Accusato di essere una spia e minacciato di tortura, Taylor, che avrebbe svolto per lo più compiti di guardia, se la cavò con cinquanta giorni di prigione, un castigo decisamente clemente per gli standard di Daesh. Diventato così lo zimbello degli altri jihadisti, il neozelandese sarebbe stato incarcerato almeno altre due volte per violazioni più, diciamo, veniali. “L’ultima volta sono stato accusato di fabbricare e bere alcol e di fumare hashish, è stato piuttosto ridicolo”, ha riferito.

Sfortunato in amore

Nella conversazione con Abc, Taylor lamenta pure la sua sfortuna con le donne. Durante la sua militanza nell’Isis si sposò ben due volte ma entrambe le mogli non lo sopportavano e riuscirono a costringerlo a chiedere il divorzio. “Mi ero sposato con una donna siriana di Deir Ezzor”, racconta, “il suo nome era Umm Mohammed. Mi pregò di andarmene e recarmi a Idlib, e poi in Turchia”. In sostanza, la signora, pur di levarselo di torno, aveva cercato di convincerlo a morire con onore nella città del Nord Ovest siriano dove ora è concentrato il grosso delle truppe islamiste residue e che, prima della recente mediazione russo-turca, avrebbe dovuto essere l’obiettivo dell’ultima grande offensiva dell’esercito del presidente Bashar al-Assad.

“Un mese dopo ho sposato un’altra donna siriana molto più giovane, sostenitrice dell’Isis, ma ho divorziato”, spiega ancora Taylor, “non voleva stare nella mia casa, voleva spostarsi in un’altra area per stare vicino ai suoi amici, e non a suo marito. Ho dovuto spiegarle più volte che doveva restare a casa e obbedire a suo marito”.

L’unica alternativa, a questo punto, sarebbe stato procurarsi una schiava ma Taylor non aveva abbastanza soldi per acquistarne una, cosa che definisce il suo più grande rimpianto: “Per comprare una schiava servono almeno 5.000 dollari per una di 50 anni e oltre. Per comprarne una decente ne servono almeno 10 mila o 20 mila e non avevo quel denaro con me. Ero troppo povero”.

La fuga e la cattura

Con lo sgretolarsi del Califfato, la vita in quel che rimaneva dell’Isis era poi diventata sempre più difficile. Negli ultimi mesi del 2018 “non c’era cibo, non c’era denaro, non c’erano servizi di base, era collassato tutto”, ricorda, “ero nei guai anch’io e dovetti prendere una decisione finale, ovvero andarmene”. Così Taylor a dicembre decise di fuggire da Deir Ezzor, per trovare sulla sua strada i soldati curdi, ai quali si arrese.

Ora la Nuova Zelanda non sa che fare di lui: non avendo Auckland una rappresentanza diplomatica nei dintorni, dice la premier Jacinta Arden, Taylor dovrebbe in teoria riuscire ad arrivare da solo presso la più vicina sede consolare neozelandese in Medio Oriente. Un qualcosa che, prosegue il primo ministro, “sarebbe difficile per lui”. In patria lo attende, come ovvio, il carcere. Ma non si sa come potrà giungerci. Le capacità del governo di recuperarlo, ha ammesso Arden, “sono enormemente limitate”.

Vedi: Arrestato il "jihadista pasticcione" che nemmeno l'Isis sopportava
Fonte: estero agi


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