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America mia, come hai fatto a finire così sbandata?

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Storie di razzismo, lotte intestine, follie, paure, Fbi
Paolo Guzzanti

L’attentato a Rushdie, l’attacco furioso dei servizi segreti contro Trump, lo stravagante viaggio della Pelosi per provocare la Cina, sono solo gli ultimi segnali di una crisi e di una corsa al disfacimento che parte da tanti anni fa
Che gli Stati Uniti d’America siano in crisi lo sanno per primi gli americani, i quali attraversano uno dei momenti di peggiore instabilità. Sono abituati: periodicamente sia loro che i loro giornali e siti affermano che l’America è in disfacimento e che il loro Paese, quello del “sogno americano”, è morto e sepolto. Non è la prima, né la seconda e la terza volta che assistiamo a una tale sensazione di disfatta cui seguono segnali di crisi economica come sta accadendo con un’inflazione al nove per cento.
L’America è irritata dal presidente Joe Biden. Joe Biden è tuttavia il male minore perché non potrà affrontare due turni consecutivi, ma ha al suo fianco una vice che si dichiara nera benché figlia di un funzionario dell’impero inglese, Kamala Harris, e gli americani tremano all’idea che possa subentrare a Joe Biden. Poi c’è il caso di Donald Trump, la cui politica è incomprensibile in Europa perché tradizionalmente americana, fatta di isolazionismo e diffidenza per gli europei, aggressiva nel dichiarato tentativo-desiderio di proteggere aziende e lavoratori americani dall’ingiusta concorrenza dei lavoratori europei che non pagano tasse per la difesa. L’America è inoltre percorsa da nuove correnti di odio non destinate a rimarginarsi. Quella razziale tra bianchi e neri è la più nota e gli amici mi dicono che è finita da tempo la moda della finta fraternità interrazziale, perché i giovani preferiscono stare fra i loro simili.
Ma a questo aspetto razziale primario c’è da aggiungere il moltiplicarsi delle scalate sociali delle etnie asiatiche nelle scuole e nei posti di lavoro. Gli asiatici costringono i figli a studiare a quattordici ore al giorno vincendo quindi tutte le borse delle scuole pubbliche e private, raggiungendo da soli le vette della eccellenza universitaria e umiliando o mettendo in grave affanno tutti gli altri. Molti adolescenti americani si sono suicidati per la perdita delle borse di studio, specialmente in New Jersey.
E poi c’è l’affare Salman Rushdie. Questo scrittore indiano naturalizzato inglese è una delle glorie letterarie del mondo ma poco amato nei paesi, Italia compresa, attenti alle sensibilità islamiche. Rushdie è un uomo di frontiera e fu condannato a morte con l’emissione dei una Fatwa religiosa sostenuta da una taglia sostanziosa iraniana.
Se Rushdie pensava che la sua condanna fosse stata dimenticata, non erano autorizzati a pensarlo coloro che avevano il dovere di proteggerlo specialmente negli Stati Uniti. L’attentato a Salman Rushdie non è stato soltanto una conferma dell’esistenza della stessa barbarie che ispirò la strage nella redazione di Charlie Hebdo, ma dimostra l’inettitudine dei servizi di sicurezza americani, come accade in tempi di crisi quando si interrompono le catene delle responsabilità.
La vicenda di Trump fermenta: l’irruzione nella casa privata di un ex presidente che fino a pochi mesi fa abitava alla Casa Bianca ha provocato una forte irritazione non contro Trump ma contro l’FBI e il procuratore che ha fornito il mandato con i reati su cui si svolgeva l’indagine. L’opinione pubblica non soltanto di destra trova incomprensibile un’accusa di spionaggio nei confronti di un ex presidente americano che ha sempre avuto sotto gli occhi le carte che sono state trovare nella sua magione.
Accusare di spionaggio un uomo che è stato il protagonista degli eventi cui si riferiscono i documenti trovati a casa sua è piuttosto ridicolo. E in casa repubblicana la prendono molto male perché è evidente l’aspetto persecutorio nei confronti di un possibile candidato che costituisce una minaccia per l’attuale establishment. Infatti, l’attuale establishment democratico ha ripreso il comando di tutte le agenzie di spionaggio e controspionaggio a partire dalla FBI. Cresce intanto nella società la nuova tendenza – analizzata dal filosofo britannico Douglas Murray – che spinge tutti i giovani sotto i quarant’anni a cercare una nicchia da cui si possa dichiarare vittima storica, razziale, di genere, religiosa e reclamare diritti perduti o mai avuti. Ognuna di queste nicchie suscita reazioni di ripulsa violenta di altri gruppi ed episodi di follia come le sparatorie in cui vengono immolate vittime innocenti a crisi di apparente follia, che però non è individuale ma ha radici collettive.
La società americana appare di giorno in giorno fratturata non più soltanto fra ricchi e poveri o bianchi e neri, ma fra asiatici e non asiatici, tra minoranze nemiche provenienti da tutti i rivoli dei molti genere di “latinos” in conflitto fra discendenti di nativi e discendenti dei colonialisti spagnoli, benché si esprimano nella stessa lingua. Queste fratture si dilatano nella politica perché i politici assecondano le divisioni per potersene proclamare i rappresentanti.
Gli Stati Uniti rimangono un paese diverso da tutti gli altri di lingua inglese, come i canadesi, gli australiani, i neozelandesi. Tutti in apparenza figli di una stessa madre, ma nessuno con una storia travagliata e fragile come quella degli americani.
La guerra d’indipendenza americana fu una rivoluzione più sanguinaria di quella francese vinta con l’uso spietato di eserciti contro eserciti regolari visto che le Tredici colonie originarie erano dotate anche di un esercito guidato dal generale George Washington, coperto di gloria per aver inflitto pesanti sconfitte ai francesi durante la guerra dei Sette Anni: una guerra di una violenza ancora poco conosciuta in Europa, seguita dopo il primo ciclo di storia dalla Guerra di secessione tra unionisti e confederati, sempre di violenza implacabile tra gente dello stesso sangue.
Nel ciclo successivo di crisi venne la segregazione razziale con le cosiddette “Leggi di Jim Crow” – poi adottate dal nascente nazismo per segregare gli ebrei in Germania come conseguenza della sconfitta confederata per mantenere fuori dalla vita civile gli americani di colore che soltanto con John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson cominciarono a rivedere la luce. Infine venne la grande crisi esistenziale della guerra nel Vietnam, un trauma ideologico e morale, e quindi l’apparente fine della guerra fredda vissuta come un trionfo dell’occidente e subito messa in secondo piano dal trauma delle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001 a New York e le conseguenti guerre antislamiche In Iraq e in Afghanistan. Oggi negli USA si è persa la cognizione ideologica della differenza tra conservatorismo e progressismo sicché politicamente nessuno sa più bene chi è e che cosa è.
A questo panorama si aggiunge il modo maldestro – come ha osservato pochi giorni fa il quasi centenario Henry Kissinger – con cui l’attuale amministrazione intende provocare la Cina su Taiwan anziché restare fermi e non creare situazioni belliche costose e di incero esito.
Il risultato finale è la coesione, anche non ancora alleanza militare tra Russia, Cina, Pakistan, Iran, Sud Africa, Brasile e altri Paesi dell’America Latina. Tutto ciò accade senza una regia o una leadership in grado di analizzare e guidare il corso degli eventi, cosa che l’America aveva sempre creduto di saper fare, ma per cui oggi sembra paralizzata e confusa.

Fonte: Il Foglio