Type to search

7 giugno 1953. Le elezioni politiche con la cosiddetta “legge truffa”, che non scatta per pochi voti

Share

di Antonino Gulisano

La legge 31 marzo 1953, n. 148, “Modifiche al testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati approvato con decreto presidenziale 5 febbraio 1948, n. 26” è passata alla storia come “legge truffa”. 

La legge modificava il sistema elettorale italiano del 1946 introducendo un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse superato il 50% dei voti validi. Promulgata il 31 marzo 1953 e in vigore per le elezioni politiche del 7 giugno di quello stesso anno, sia pure senza che desse effetti, venne poi abrogata con la legge 31 luglio 1954, n. 615.

La legge, voluta dal governo di Alcide De Gasperi, venne proposta al Parlamento e fu approvata con i soli voti della maggioranza, dopo lunghe discussioni e con voto di fiducia, nonostante i forti dissensi manifestati dalle formazioni politiche di opposizione, e anche da parte di molte personalità appartenenti all’area della maggioranza.

Vi furono grandi proteste contro la legge, sia per la procedura di approvazione sia nel merito.

Varia è l’attribuzione della genesi della definizione di “legge truffa”, prevalentemente ascritta agli oppositori della legge e attinta dall’espressione “loi scélérate” utilizzata nella polemica pubblica francese contro la legge elettorale del 1951.

 

Secondo Indro Montanelli, invece, il primo utilizzo della parola «truffa» andrebbe attribuito allo stesso Mario Scelba, all’epoca Ministro dell’Interno, che in primissima battuta respinse l’idea della presentazione della legge quando si accorse che il margine di successo era troppo risicato, prevedendo una forte reazione delle opposizioni affermando, quando ancora si valutava se il Governo avesse dovuto proporla: «L’idea è buona, ma se noi proponiamo una simile legge questa legge sarà chiamata “truffa” e noi saremo chiamati “truffatori”».

Nel tentativo di ottenere il premio di maggioranza, per le elezioni politiche di giugno, effettuarono fra loro l’apparentamento la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Democratico Italiano, il Partito Liberale Italiano, il Partito Repubblicano Italiano, la Südtiroler Volkspartei e il Partito Sardo d’Azione.

Con l’obiettivo contrario si mossero importanti uomini politici, tra i quali Ferruccio Parri, proveniente dal Partito Repubblicano che, insieme a Piero Calamandrei e Tristano Codignola, provenienti dal Partito Socialdemocratico, partecipò alla fondazione di Unità Popolare: tale movimento aveva proprio lo scopo di avversare la nuova legge elettorale. Non mancarono infatti, all’interno dei partiti che appoggiarono la nuova norma, forti contrarietà. Da una scissione nel partito liberale si costituì Alleanza Democratica Nazionale.

Nelle elezioni del 7 giugno 1953 le forze apparentate ottennero il 49,8% dei voti: per circa 54.000 voti il meccanismo previsto dalla legge non scattò. Unità Popolare e Alleanza Democratica Nazionale raggiunsero l’1% dei voti riuscendo entrambe nel loro principale proposito. Rispetto alle elezioni del 1948 si constata una riduzione dei voti verso i partiti che avevano voluto e approvato la legge: la DC perse l’8,4%; i repubblicani arretrarono dello 0,86%, più di 200.000 voti; perdendo circa 34.000 voti il Partito Sardo d’Azione dimezzò il suo consenso, anche liberali e socialdemocratici dovettero registrare perdite. Il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano aumentarono i consensi ottenendo 35 seggi in più; il Partito Nazionale Monarchico aumentò da 14 a 40 deputati e il Movimento Sociale Italiano aumentò da 6 a 29 deputati.

Il 31 luglio dell’anno successivo la legge fu abrogata dal nuovo Parlamento.

Si noti che la legge andava a innovare una materia che, almeno nell’Europa di diritto latino, era tradizionalmente regolata secondo le elaborazioni di alcuni giuristi, principalmente Hans Kelsen, i quali vedevano in un sistema elettorale strettamente proporzionale (e con pochi correttivi o aggiustamenti) la corretta rappresentatività politica in democrazia. Se anche appare scorretto sostenere che la Costituzione del 1948 recepisse un favore per il proporzionale, è però vero che già da allora il sistema del premio di maggioranza era considerato assai rudimentale, per conseguire le esigenze di governabilità delle democrazie moderne, da buona parte della dottrina politologica.

Queste critiche sono riemerse, a cinquant’anni di distanza, nei confronti della legge n. 270 del 2005 (il cosiddetto «Porcellum», dall’epiteto denigratorio “porcata” rivoltole dal suo stesso proponente, l’allora ministro Roberto Calderoli), che contiene al suo interno un premio di maggioranza nazionale alla Camera e regionale al Senato. Oltre mezzo secolo fa andammo a votare, nella sostanza, contro una legge che attribuiva un premio di maggioranza alla coalizione che avesse superato un certo quorum. E nei fatti la «legge truffa», come venne allora chiamata dalla sinistra, non poté essere applicata e, si disse, questo era un innegabile segno di democrazia. Oggi le posizioni sono completamente invertite. Si sbagliò allora? O si sbaglia oggi? Che cosa e come è cambiato?

 Nel 1953 le sinistre, e in particolare i comunisti, sapevano di essere condannate per il momento al ruolo dell’opposizione e desideravano una legge che permettesse ai loro partiti di fare in Parlamento battaglie efficaci e, se possibile, paralizzanti. Oggi, anche se il nostro bipolarismo è zoppo e traballante, tutti sanno di poter conquistare il potere e sono maggiormente disposti ad accettare una legge elettorale che consenta di esercitarlo.

La legge Mattarella, dal nome del suo relatore, Sergio Mattarella, è stata una riforma della legge elettorale della Repubblica italiana, attuata in seguito al referendum del 18 aprile 1993, con l’approvazione delle leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277, che introdussero in Italia, per l’elezione del Senato e della Camera dei deputati, un sistema elettorale misto così composto:

sistema maggioritario a turno unico per la ripartizione del 75% dei seggi parlamentari;

recupero proporzionale dei più votati non eletti per il Senato attraverso un meccanismo di calcolo denominato “scorporo” per il rimanente 25% dei seggi assegnati al Senato;

proporzionale con liste bloccate per il rimanente 25% dei seggi assegnati alla Camera;

sbarramento del 4% alla Camera.

Il sistema così concepito riunì pertanto tre diverse modalità di ripartizione dei seggi (quota maggioritaria di Camera e Senato, recupero proporzionale al Senato, quota proporzionale alla Camera) e per tale ragione venne anche chiamato “Minotauro” in reminiscenza del nome del mostruoso essere parte uomo e parte toro presente nella mitologia greca.

La legge sostituì il precedente sistema proporzionale in vigore dal 1946 al 1953 e dal 1954 al 1994 ed è rimasta in vigore fino al 2005 quando venne sostituita dalla legge Calderoli. 

Dal 2017 è in vigore un sistema elettorale misto a separazione completa, ribattezzato Rosatellum bis: in ciascuno dei due rami del Parlamento, il 37% dei seggi assembleari è attribuito con un sistema maggioritario uninominale a turno unico, mentre il 61% degli scranni viene ripartito fra le liste concorrenti mediante un meccanismo proporzionale corretto con diverse clausole di sbarramento. Le candidature per quest’ultima componente sono presentate nell’ambito di collegi plurinominali, a ognuno dei quali spetta un numero prefissato di seggi; l’elettore non dispone del voto di preferenza né del voto disgiunto. La Costituzione stabilisce altresì che dodici deputati e sei senatori debbano essere prescelti dai cittadini italiani residenti all’estero. 

Oggi, in seguito all’approvazione, nel 2019, dalla legge costituzionale, confermata da un referendum popolare, che taglia il numero dei parlamentari da 630 a 400 alla Camera dei deputati e da 315 a 200 nel Senato della Repubblica, siamo nuovamente in attesa di una riforma, l’ennesima, del sistema elettorale, essendo necessario, quantomeno, ridefinire i collegi elettorali.