Il 28 luglio del 1976 la Corte Costituzionale, pur confermando il monopolio della Rai, affermò per la prima volta la legittimità delle emittente private, purché le loro trasmissioni si mantenessero in ambito locale.
Seguirono anni durante i quali il Parlamento non trovò il modo di regolare efficacemente la complessa vicenda politica e giuridica della convivenza tra le televisioni commerciali e il servizio pubblico.
Con la sentenza n. 202 del 28 luglio 1976 la Corte Costituzionale ammise la legittimità delle trasmissioni in ambito locale facendo salvo il monopolio pubblico. In pratica la Consulta diede il via libera alle iniziative private ma soltanto se mantenute in ambito locale.
Durante quell’estate del 1976 si manifestarono subito difficoltà nei rapporti tra ministero delle Poste e radio locali, accusate di disturbare, con le loro interferenze, alcuni pubblici servizi. Ad agosto comparve per la prima volta sui giornali la sigla di TeleMalta, stazione televisiva dell’editore Angelo Rizzoli che, con il sostegno del premier maltese Dom Mintoff, trasmetteva in Italia i suoi programmi dall’isola al centro del Mediterraneo. Era la sfida di Angelo Rizzoli alla Rai anche nell’informazione.
Nel giugno del 1978 il Consiglio dei ministri approvò il primo disegno di legge sulle trasmissioni televisive, affrontando i temi delle licenze per i titolari degli impianti, dei limiti per la pubblicità (non oltre il 10 per cento sul totale delle trasmissioni). Quel ddl sanciva il divieto di ottenere più di una licenza radiofonica o televisiva nella stessa area e vietava il collegamento tra impianti di proprietari diversi, con l’eccezione delle produzioni comuni a più emittenti. Nel novembre del 1980 un decreto ministeriale indisse il primo censimento delle emittenti private, dal quale risultò che vi erano, in quel momento, in Italia, 600 emittenti televisive e 200 stazioni radio private.
Nel giugno del 1980 la Corte di Cassazione aveva confermato che le televisioni private possono trasmettere via etere sulle bande di frequenza loro assegnate dal ministero. E nel settembre di quello stesso anno 1980 era nata Canale 5.
Nel campo dell’informazione, Rizzoli trasmette nel 1981 su Pin-Prima Rete indipendente, il primo Telegiornale privato, “Contatto”, ideato e condotto da Maurizio Costanzo, che però durerà solo quattro mesi.
Il 17 luglio del 1981 arrivò una nuova sentenza della Corte Costituzionale (la n. 148) che confermava la legittimità delle trasmissioni private solo in ambito locale. Si dava così ancora ragione alla Rai nel contrasto con il Tg di Rizzoli.
Ma il primo gennaio del 1982 nasce Retequattro, il network Mondadori-Perrone-Caracci, mentre Rusconi vara Italia Uno.
Il 1982 si apre all’insegna della guerra aperta tra la Rai e i network privati: con un ricorso alla Pretura di Roma l’azienda di Stato chiedeva che Canale 5, Italia Uno e Retequattro interrompessero la simultaneità delle trasmissioni.
Nell’ottobre 1983 una sentenza del tribunale di Milano dichiarava la legittimità dei network e il loro diritto di trasmettere in contemporanea.
Nell’agosto del 1984, con la cessione da Mondadori e Caracciolo alla Fininvest di Silvio Berlusconi di Retequattro, il tycoon milanese acquisì il controllo di tutti e tre i grandi network nazionali.
Il 16 ottobre 1984 nelle regioni Lazio, Piemonte e Abruzzi, tre pretori ordinano contemporaneamente l’oscuramento dei network, ma già il 20 ottobre il governo, con il primo decreto Berlusconi, riaccende d’imperio le emittenti spente dai pretori. Il 28 novembre quel decreto viene respinto dall’aula di Montecitorio, e ricomincia la querelle. Il 5 dicembre il governo varò un secondo decreto Berlusconi, poi prorogato di sei mesi dal Consiglio dei ministri il 1° giugno 1985 e decaduto definitivamente alla fine di quell’anno.
Il 18 dicembre del 1985 il tribunale di Roma riformò in appello la sentenza di condanna emessa a carico dei network, dichiarando che le trasmissioni in contemporanea dei circuiti nazionali non costituiscono reato.
Nel 1986 il governo rifiuta di varare un quarto decreto Berlusconi, rimandando la palla al Parlamento. E si andò avanti così, con sentenze alterne, fino all’avvento di Berlusconi al governo.
Il 6 agosto 1990 fu approvata la “legge Mammì”, che affrontava in modo organico l’ordinamento del sistema radiotelevisivo. Poi, il 3 marzo 2004, arrivò la “legge Gasparri”, che era una legge delega sul riordino del sistema, che produsse, l’anno successivo, il Testo della radiotelevisione, che diede un assetto definitivo riassumendo e riorganizzando il sistema dopo trent’anni di leggi, sentenze, giurisprudenza costituzionale e delibere dell’Autorità garante per le telecomunicazioni tra loro contrastanti.
In tutti questi anni la Corte Costituzionale, senza “esprimere alcun giudizio – come dice una delle tante sentenze, la 148/1981 – sul modo col quale i mezzi radiotelevisivi sono stati finora gestiti, intende solo adempiere al suo dovere di accertare quali siano le condizioni minime necessarie perché il monopolio statale (della Rai, n.d.r.) possa essere considerato conforme ai principi costituzionali”.
In generale la Consulta si è attestata sui principi fissati dall’art. 21 della Costituzione, in base al quale tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione e quindi la libertà di espressione è ampia e dall’art. 41 che detta che l’iniziativa economica privata è libera, per cui la Corte sancisce il principio della libera attività economica anche dei mezzi audio visivi. Infine viene richiamato anche, per trovare il giusto punto di equilibrio, l’art. 43 della Costituzione, il quale sancisce che “Ai fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, a enti pubblici o comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.