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11 Settembre: quando la notizia diventa Storia, l’attacco nella redazione dell’AGI

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AGI – Non uscimmo per primi, ma c’è una spiegazione: la redazione era in assemblea per ascoltare il discorso di insediamento del nuovo direttore. Un’assemblea tranquilla, senza tensioni. C’era stato un breve confronto su vari temi, poi si era deciso di rimandare a dopo pranzo la presentazione del piano editoriale, il passaggio più delicato e quindi più meritorio di attenzione. E, si sa, una pancia che brontola non è mai ben disposta.

Nell’attesa, parlavo con un collega e buttai un occhio su Televideo – sì, all’epoca era indispensabile in ogni redazione – e… vidi la notizia. Poche righe: un piccolo aereo da turismo si era schiantato contro una delle Torri Gemelle. Tre pensieri: il pilota era una vera schiappa; il pilota si era sentito male come nel film ‘Airport’; peccato che “la rete” fosse chiusa. Perché è così che funziona, quando la redazione di un’agenzia va in assemblea, chiude “la rete”, si sospendono le trasmissioni. Quindi eravamo muti. Muti mentre si scatenava l’inferno.

Chiesi a un caporedattore centrale se non fosse il caso di riaprire “la rete”: lavoravo alla redazione Esteri da meno di due anni e amavo occuparmi di tutto quello che accadeva oltre quelli che mi apparivano come gli asfittici confini nazionali. Una cosa come quella, anche se era solo un piccolo aereo da turismo, ai miei occhi valeva più di qualunque dibattito sindacale. Fatto sta che noi non avevamo ancora scritto una riga e io stavo col naso incollato alla Cnn mordendo il freno. Certo, a guardare le immagini, il ‘piccolo aereo’ aveva fatto un bel danno… Ma quanto era piccolo?

Stavo pensando a questo quando vidi il secondo aereo schiantarsi contro la Torre Sud. Esplosione, fiamme, fumo. Nessun rumore. Per un tempo che mi sembrò infinito, un silenzio quasi assoluto, dalla tv e nella redazione. Nemmeno un’imprecazione, non un sospiro. Niente. Ricordo che pensai la cosa più stupida che potessi pensare, ma che oggi serve a dare un’idea di quanto fosse assurdo quello che avevamo appena visto: “Ma che stanno combinando alla torre di controllo?”.

Poi in tv qualcuno disse “Oh my God” e fu come se avessi riacquistato l’udito. “Riaprite la rete!” urlò un caporedattore.

Nel tempo che servì per riprendere le trasmissioni fu come se si fossero accese mille lampadine nelle nostre teste. Fui io a scrivere il primo flash e molti altri dopo. Internet non era quello di oggi: la mole di utenti aveva reso inaccessibile la rete e le uniche fonti che avevamo erano la Cnn e le agenzie internazionali, che all’epoca viaggiavano ancora su satellite. Ma anche quelle tacevano. Oggi posso solo immaginare che nelle loro redazioni stesse succedendo quello che stava succedendo da noi: troppi interrogativi, nessuna risposta. Chi era stato? Perché? Era finita o era solo l’inizio?

La prima risposta arrivò dritta sul Pentagono, alle 15,37 ora italiana. Nove minuti dopo battevamo la notizia: “Incendio al Pentagono”. Un altro aereo.

Davamo una media di notizia al minuto, alcune volte anche due. A leggere ora il ‘mandorlo’, come si chiama in gergo l’elenco dei titoli del notiziario, si percepisce il caos che regnava ovunque. Oggi pochi lo ricordano, ma sembrava che l’attacco fosse ancora più massiccio di quello che era in realtà: alle 15,42 fu dato che un terzo aereo era in avvicinamento su Manhattan, poi alle 16,17, che c’era stata un’esplosione al Campidoglio. Alle 16,34 che un’autobomba era esplosa davanti al Dipartimento di Stato.

Quale fosse l’origine di quelle notizie false non è stato mai chiarito perché nel frattempo l’orrore si sommava all’orrore: alle 15,59 crollava la Torre Sud e 29 minuti più tardi toccava alla Nord. La Casa Bianca era stata evacuata (15,44), e così anche per il Campidoglio (15,51) e il Dipartimento di Stato (15,58). Le organizzazioni internazionali cercavano di mettere al sicuro il personale: quello dell’Onu veniva mandato negli scantinati alle 16,16 e alle 16,28 veniva ordinato lo sgombero. Il Programma alimentare mondiale, a Roma, veniva evacuato alle 17,17.

Era l’inferno. Chiesi a un collega del politico – eravamo tutti in redazione per l’assemblea – se poteva fare una scheda sulla storia delle Torri Gemelle. Alla cronaca impazzivano dietro agli allarmi che si moltiplicavano anche in Italia e alle dichiarazioni di stato di allerta: alla base di Aviano (16,35), all’ambasciata Usa a Roma (16,45), al comando Nato di Bagnoli (16,35) e all’aeroporto di Fiumicino (16,46).

In quel delirio di richieste, telefoni che squillavano e voci che si sovrapponevano, quello che di lì a pochi mesi sarebbe diventato il capo degli Esteri si avvicinò a me con una cartella azzurra su cui era scritto una sigla: al Qaeda. Era piena di ritagli di giornale, lanci di agenzia e materiale vario che andava dall’attentato alle Torri Gemelle nel 1993, a quelli alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, a quello al cacciatorpediniere Cole il 20 ottobre del 2000. “Sono stati loro” mi disse, “facciamo una scheda”. L’unica cosa che avevamo sul notiziario era una rivendicazione del Fronte di Liberazione della Palestina (15,38) smentito appena 11 minuti dopo. La sua sicurezza aveva un senso.

Alle 16,56 uscì la scheda su al Qaeda con questo titolo: “Bin Laden minacciò attentati ‘senza precedenti’”. Oggi può non sembrare chissà quale intuizione, ma allora, meno di due ore dopo l’inizio di quell’immane tragedia… possiamo dire di averci visto lungo.

Alle 17 la Cnn diede la notizia che un aereo era precipitato in Pennsylvania. Era il volo United 93, quello a bordo del quale i passeggeri si ribellarono ed ebbero la meglio sul piano dei terroristi per farlo schiantare sulla Casa Bianca o sul Campidoglio. La conferma arrivò 54 minuti più tardi.

Nel frattempo, sentendosi gli occhi del mondo addosso, i talebani avevano convocato una conferenza stampa (17,18)  durante la quale dissero: Bin Laden non è responsabile (18,02).

Dopo aver parlato agli americani per dire che quello su New York sembrava un attentato (15,32) e che i colpevoli non avrebbero avuto tregua (15,36) per tutta la giornata George W. Bush era passato da una base aerea all’altra, in attesa che i servizi segreti e la Difesa capissero se c’era un posto in cui sentirsi al sicuro.

Ecco: sentirsi al sicuro. Quando tornai a casa albeggiava. I miei figli dormivano: per mesi la più grande non avrebbe disegnato altro che aerei e grattacieli in fiamme. Ero in piedi da ventiquattr’ore, ma l’adrenalina era tanta, non avrei mai preso sonno. Stava scemando, è vero, lasciava il passo alla consapevolezza di aver vissuto una giornata destinata a entrare nella Storia. Ma soprattutto aprendomi una voragine nell’anima: non potevamo più sentirci al sicuro. Nessuno, da nessuna parte. Mi sedetti sul bordo del letto e piansi tutte le lacrime che avevo.

Source: agi


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