La disciplina vigente sul trattenimento nei Centri di permanenza per rimpatri “non rispetta la riserva di legge in materia di libertà personale”, ma “spetta al legislatore integrarla”. E’ quanto sancito dalla Corte costituzionale con una sentenza depositata oggi, con la quale ha, però, dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal giudice di pace di Roma nell’ambito di procedimenti di convalida del trattenimento di stranieri in un Cpr.
Con la sua ordinanza, il giudice rimettente aveva denunciato che “il trattenimento si svolge secondo modalità e procedimenti non disciplinati da una normativa di rango primario”, in violazione, dunque, della “riserva assoluta di legge” prevista dall’articolo 13, secondo comma, della Costituzione, e aveva anche lamentato “l’omessa previsione di standard minimi di tutela giurisdizionale, con disparità di trattamento rispetto ai detenuti in carcere, che usufruiscono delle garanzie dell’ordinamento penitenziario”. I ‘giudici delle leggi’, con la loro sentenza, hanno riaffermato che il trattenimento nei Cpr implica un “assoggettamento fisico all’altrui potere”, che incide, quindi, sulla libertà personale, e hanno ritenuto “sussistente” il “vulnus” denunciato con riguardo alla “riserva assoluta di legge”: la disposizione censurata (articolo 14, comma 2, del Testo Unico Immigrazione), osserva Palazzo della Consulta, “reca una normativa del tutto inidonea a definire, con sufficiente precisione, quali siano i ‘modi’ della restrizione, ovvero quali siano i diritti delle persone trattenute nel periodo, che potrebbe anche essere non breve, in cui sono private della libertà personale” e tale disciplina è “rimessa, quasi per intero, a norme regolamentari e a provvedimenti amministrativi discrezionali”.
La Corte ha però evidenziato che non le è consentito “porre rimedio” a questo ‘vulnus’, poiché ricade sul legislatore “il dovere ineludibile di introdurre una normativa compiuta, la quale assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona trattenuta”.
Da qui, la pronuncia di inammissibilità, legata anche a una “incompleta ricostruzione del quadro normativo, riguardo all’operatività, a tutela dei diritti della persona trattenuta”, sia dello strumento risarcitorio generale, sia del ricorso – previsto dal codice di procedura civile – alla tutela preventiva cautelare che “ben può, infatti, giustificarsi contro le violazioni o le limitazioni dei diritti fondamentali, subite da chi sia trattenuto presso un Cpr, non oggetto di puntuale disciplina da parte del Testo unico dell’immigrazione”. (AGI)
OLL