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Libri: ‘Tutta la luce della diversità’ di Romizi, inno di vita

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Per giudicare la vita di un uomo bisogna sempre guardare il punto di partenza e le avversità che hanno caratterizzato il suo percorso. Il sorprendente romanzo ‘Tutta la luce della diversità’, opera prima del giovane Gabriele Romizi (Albatros Edizioni), si rivela come un potente inno di vita.
Quattro tra i protagonisti hanno tentato il suicidio, uno di loro è stato ricoverato con il Tso in un ospedale psichiatrico accanto al suo amico immaginario, un’altra è accusata dell’omicidio del suo fratellino. Eppure il libro descrive l’affascinante scalata sui tortuosi tornanti di quell’altissimo valico di montagna, che è la vita stessa.
Nel romanzo di Romizi si intravede anche un pizzico di Jack Kerouac, il padre del movimento ‘beat’ col suo ‘On the road’. Il viaggio come conoscenza del mondo e di se stesso. Il viaggio che, poco a poco, libera il protagonista della compagnia dell’amico immaginario e gli consente una vita adulta, gratificante, tanto da poter allontanare da sé la terapia obbligatoria del malato psichiatrico, salvare una vita e trovare l’amore.
‘Obrigado, Deus’ recitano gli amici a Lisbona, tutti con una storia più o meno drammatica alle spalle. ‘Obrigado, Deus’ urla con tutta la sua voce Luis, il più entusiasta del gruppo che rilancia con queste parole l’introversa e sofferta esistenza di Gabriele: “Io penso che, per te, questo viaggio sia stato una specie di rito di iniziazione. Sei riuscito a entrare nel flusso della vita, incontrando la tua parte più bella e autentica. E’ lei che ti darà tantissimo: ti guiderà, sapientemente, ma – lo dico per esperienza personale – sarà anche un’amante esigente, che non vorrà sentirsi trascurata per più di un certo tempo. E te lo ricorderà con la sofferenza, che esiste ma che per te è importante. Ma basterà ritrovarla, non dimenticarsi mai della sua esistenza, per cominciare a sentire la musica che stai sentendo adesso”.
Sullo sfondo il viaggio come elemento risanatore e pacificatore. Il Portogallo con Oporto, Aveiro, Lisbona, l’oceano Atlantico. E’ l’oceano che pone Gabriele di fronte al bivio decisivo: lasciarsi affogare al largo tra le onde oppure nuotare e salvarsi la vita? “Se per un attimo avessi pensato che morire fosse sul serio meglio che vivere, lo avrei sperimentato subito – si legge – feci un respiro, con la bocca a contatto con l’acqua. Tirai su le braccia, tirai su le gambe, aprii le spalle: fui proprio io, dopo qualche bracciata, a prendere il comando dell’acqua, che capì che con me non era semplice come pensava. Lei, gelida com’era, contava su questo e sulla grandezza delle sue onde. Mi sentii forte, invece, proprio grazie alla sensazione del gelo, che mi rese tonico e capace di tutto. Andai avanti, senza mai voltarmi indietro nemmeno una volta. Volevo scoprire fino a che punto io potessi arrivare. Da padre, l’Oceano sapeva che avrei nuotato soltanto così, senza più le indicazioni di altre persone. E’ tra le onde che scoprii i miei limiti, ma anche alcuni punti di forza. Tanti, nel tempo, si erano preoccupati per me; alcuni, tra loro, mi avevano anche voluto aiutare. Solo l’Oceano c’era forse riuscito per la prima volta nel modo giusto”.
E’ il viaggio che rinvigorisce la vita di Gabriele. E’ il viaggio che chiude il romanzo. Una storia che Dante così descrive nella Divina Commedia (Inferno, Canto XXVI): “Né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l’alto mare aperto…”.(AGI)
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