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Le stranezze della campagna elettorale e una legge assurda

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Una campagna elettorale strana perché l’emergenza energetica e la spirale inflazionistica hanno soppiantato nel dibattito pubblico l’attenzione alle diverse “agende” sulle quali i partiti pensavano di impostare la loro propaganda ed alla stessa attuazione del Pnrr.

 

di Antonello Longo

 

È una campagna elettorale assai strana, perché si svolge, per la prima volta nella storia repubblicana, alla fine dell’estate, con la prima convocazione delle Camere fissata per il 13 ottobre e quindi potremo avere un nuovo governo nella pienezza dei suoi poteri soltanto a novembre, venendo così tutto l’iter della formazione del nuovo esecutivo a sovrapporsi alla sessione di bilancio.

Sarà dunque il governo Draghi a quantificare, entro il 27 settembre, con la Nota di aggiornamento al Def, i più importanti indicatori economici che stanno alla base della manovra di bilancio (Pil, rapporto Debito-Pil e Deficit-Pil). Ma l’esecutivo in carica solo per gli affari correnti non potrà impostare la manovra nel documento programmatico di bilancio da presentare all’Unione europea entro il 15 ottobre e si limiterà a depositare in Parlamento (adempimento da espletare, di norma, entro il 20 ottobre) un  disegno di legge di bilancio limitato a quelli che sono i rifinanziamenti obbligati.

Il nuovo governo, dunque, se ce la farà, dovrà presentare in Parlamento, a novembre, un maxiemendamento contenente le scelte politiche attraverso le quali dare effettiva caratterizzazione alla manovra di bilancio. È chiaro che le forze politiche che formeranno la nuova maggioranza, se vogliono evitare l’esercizio provvisorio, dovranno definire la fisionomia della manovra di bilancio per il 2023 con grande anticipo sui tempi dell’entrata in carica del nuovo governo.

Non so davvero se la coalizione di centro-destra, di cui appare certa l’affermazione ma insicura la compattezza politica e problematica la convergenza d’interessi rispetto alla concreta formulazione del bilancio statale, stia già pensando ai doveri che l’aspettano e sarà in condizione di produrre nel giro di sole due o tre settimane lo scatto politico, tecnico e di programmazione necessario per evitare il ricorso all’esercizio provvisorio ovvero, in soldoni, il prolungare ancora per mesi una situazione in cui il governo del Paese, che vive in condizioni di drammatica emergenza economica e sociale, dovrà limitarsi all’ordinaria amministrazione.

È da questa ristrettezza di tempi, da questo ineludibile snodo, troppo delicato e specialistico per potersi tradurre in slogan elettorali, che passa la speranza delle componenti centriste (Azione di Calenda e Renzi, ma non solo) di creare le condizioni perché dopo le elezioni si riformi un governo Draghi, soprattutto per non lasciare che l’Italia perda il passo nel quadro dell’Unione europea in un momento cruciale che richiede interventi a sostegno dell’economia di famiglie e imprese e un’accelerazione nella realizzazione del Pnrr. Scenario non impossibile ma poco probabile; piuttosto le stesse motivazioni portano alla più facile previsione che, almeno all’inizio della nuova legislatura, in barba ai proclami elettorali, si registri una sostanziale continuità nelle politiche di bilancio tra Draghi e chiunque sarà chiamato a succedergli.

 

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Una campagna elettorale strana perché l’emergenza energetica e la spirale inflazionistica hanno soppiantato nel dibattito pubblico l’attenzione alle diverse “agende” sulle quali i partiti pensavano di impostare la loro propaganda ed alla stessa attuazione del Pnrr. Ed a sviare l’attenzione dalla campagna elettorale contribuiscono anche le notizie dal clamoroso appeal mediatico come il lungo addio alla regina Elisabetta, con tutto l’apparato, tanto british quanto kitsch, del folclore dinastico ed il gossip della saga familiare. Mentre restano in sordina argomenti come la guerra in Ucraina e la pandemia di Covid 19, che pure, per lunghi mesi, hanno tenuto banco nel dibattito pubblico.

Veramente strana, poi, è l’atmosfera in cui si sta svolgendo la campagna elettorale, caratterizzata dall’opinione generale di un risultato già scritto e non modificabile, convinzione rafforzata dal crescente uso dei sondaggi come strumento di informazione e conoscenza. Strumento che, tuttavia, finisce anche per influire a sua volta sulle dinamiche politiche e sugli orientamenti della vita sociale ed economica.

A far apparire scontato l’esito del voto del 25 settembre, alimentando disinteresse e astensionismo, è il concorso di due fattori. Il primo è la mancanza di un fronte elettorale unico in contrapposizione all’alleanza Meloni-Salvini-Berlusconi, per cui tra il centrodestra unito e ciascuno dei suoi antagonisti divisi (centrosinistra, M5S e centristi)  si crea – stando, appunto, ai sondaggi – un gap incolmabile. Il secondo fattore, determinate, è la legge elettorale: infatti il mostruoso e incostituzionale “rosatellum”, voluto però da tutti indistintamente i capipartito per consolidare il loro potere ed escludere le cittadine ed i cittadini dalla possibilità di scegliere i propri rappresentanti, concede alla coalizione vincente un enorme premio di maggioranza attraverso il sistema dei collegi un uninominali nei quali si eleggono a maggioranza relativa (uninominale secco, chi prende un voto in più degli altri risulta eletto) un terzo dei nuovi parlamentari, 220 su 600, che inevitabilmente andranno quasi tutti alla coalizione più votata.

Così, come scrive Zagrebelsky su “la Repubblica”, “si prospetta l’eventualità che una coalizione elettorale, stimata attorno al 45 per cento dei votanti, in presenza di un altro 45 per cento di astenuti – dunque una esigua minoranza del totale – ottenga in parlamento un numero di seggi abnorme che le permetterebbe di fare qualsiasi cosa, anche di cambiare da sola, volendo, la Costituzione”.

E pensare che nel 1953 l’Italia finì sull’orlo della rivoluzione a causa della “legge truffa” proposta da De Gasperi, che modificava la legge elettorale del 1946 assegnando il 65% dei seggi della sola Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse conseguito il 50% più uno dei voti validi espressi (la legge fu adottata solo per le elezioni politiche del giugno ’53, ma il premio di maggioranza non scattò, e venne poi abrogata nel ’54). Come cambiano i tempi! E come una classe politica disposta a tutto (per il potere) e capace di nulla (per il popolo) ha ridotto la nostra democrazia costituzionale…