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Le responsabilità sovietica nel massacro di Katyń (Polonia)

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di Paolo Morawski fonte@ poloniaeuropae.it/

Guardo una foto della strage di Bucha, avvenuta in Ucraina a fine marzo 2022. Vedo un corpo giustiziato con le mani legate dietro la schiena. Alla radio danno notizia di uccisioni di civili con colpi esplosi alla nuca. A Bucha come altrove giornalisti e inviati sul campo stanno indagando, raccogliendo prove, ascoltando testimoni – vedi l’inchiesta esemplare del “New York Times”. Da Roma non paiono esserci dubbi su chi ha commesso questo orrore contro la popolazione, ma il Cremlino ha subito respinto ogni accusa, anzi ha chiesto una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per “smascherare” quella che sostiene essere una messa in scena orchestrata dalle forze speciali ucraine. Come fuoriuscito da un vaso di Pandora già scorre un fiume di propaganda e disinformazione, con annesso balletto di verità e contro-verità, di controversie e prudenze, di prese di posizione a priori e sospensioni di giudizio. Da Roma si può essere convinti, anzi certi (anche a seguito delle ricostruzioni satellitari) che la strage sia avvenuta quando quel territorio era occupato dai russi, i quali ora “negano”. Ma “provare” un crimine di guerra richiede procedure molto complesse. Ad accertarlo deve essere un giudice. L’unica soluzione per mettere freno alla disinformacja russa è mettere al più presto al lavoro una commissione indipendente internazionale (per esempio che risponda alla Corte penale internazionale dell’Aja) per stabilire i fatti.

Ho subito pensato a Katyń.

Il massacro di Katyń è avvenuto nella primavera del 1940 (aprile-maggio) vicino a Smoleńsk, quando quei territori sono sotto occupazione sovietica. Per inquadrare il fatto occorre ricordare che nel settembre 1939 la Polonia è invasa quasi contemporaneamente da due parti: da ovest dai nazisti e da est dai sovietici. La duplice invasione russo-tedesca piega le forze del paese. La Polonia soccombe alle due potenze in quel momento alleate. La sconfitta conduce migliaia di militari e cittadini polacchi in diversi campi di detenzione tedeschi. I sovietici, dal canto loro, a ondate successive deportano nel 1940 circa 400-700 mila prigionieri polacchi in Unione Sovietica, chi in prigione chi nei gulag siberiani. Qualche mese dopo le alte sfere sovietiche decidono di eliminare una parte di questi prigionieri, specie i circa quindicimila ufficiali raccolti nei campi di concentramento di Starobielsk, Kozielsk e Ostachkov. È in questo contesto che si colloca il massacro di Katyń.

Il massacro è ordinato e commesso dal Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD, l’erede della Ceka, la polizia politica creata da Lenin nel 1917). È il NKVD che fa fucilare almeno 21.768 cittadini polacchi, tra cui più di 10 mila ufficiali e sottufficiali dell’esercito polacco, anche della riserva, e della polizia di stato, nonché funzionari, guardie forestali, insegnanti, professori, proprietari terrieri, ecclesiastici, scienziati, medici, ingegneri, avvocati, dipendenti pubblici, uomini d’affari, rappresentanti delle libere professioni). Sono poi sepolti dai sovietici in fosse comuni nella foresta di Katyń. Si tratta di un crimine deliberato, pianificato su decisione delle massime autorità dell’URSS (Stalin, Beria, Boroscilov, Mikoian, Molotov, Kaganovic, Kalinin…). Un crimine ben documentato anche dalla risoluzione segreta (n. P13/144) dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica datata 5 marzo 1940 (la cosiddetta “decisione Katyń”), con firme di approvazione.

Si decide di giustiziare i condannati polacchi, senza convocarli, ascoltarli, senza fare indagini né presentare accuse comprovate. Solo perché erano considerati contrari al comunismo, perché incalliti e non redimibili “nemici del potere sovietico”, “membri di varie organizzazioni contro-rivoluzionarie di spie e di sabotatori”. Pertanto, non possono in alcun modo difendersi. L’NKVD giustizia le vittime sparando loro alla nuca con armi leggere.

Con molta probabilità la motivazione principale è uccidere per assoggettare. Si vuole eliminare i polacchi ritenuti “non sovietizzabili”. In pratica ciò significa privare la nazione polacca di parte del suo strato dirigente, dell’élite intellettuale (la cosiddetta Intelligencija) di cui gli ufficiali assassinati sono i rappresentanti. Il fine è quello di impedire la rinascita dello Stato polacco – in quel periodo inesistente, perché spartito tra Hitler e Stalin. Il fine è impedire ogni ostacolo alla dominazione sovietica. In questo senso si tratterebbe di uno sterminio di classe piuttosto che di uno sterminio nazionale, un’azione di pulizia di classe per prevenire ogni futura ed eventuale resistenza alla costruzione del socialismo/comunismo in Polonia, costruzione che dal punto di vista della leadership bolscevica è nel 1940 considerata inevitabile.

Lo sterminio dei prigionieri di guerra polacchi e la loro sepoltura avviene in molti luoghi delle attuali Ucraina e Bielorussia, a Katyń, Kharkov, Tver, Kiev, Charków, Chersoń, Minsk. Il maggior numero di vittime è poi rinvenuto a Katyń (circa 4400) che diviene il nome collettivo e il simbolo di questo massacro.

Ma ecco un fatto imprevisto. Nel febbraio-aprile 1943 le autorità tedesche scoprono nella foresta di Katyń delle fosse comuni con corpi di militari polacchi. Il Reich – che nell’estate 1941 ha attaccato l’URSS – è in quel momento padrone dei territori sovietici occidentali. I nazisti cercano ovviamente di volgere la scoperta a loro vantaggio. Nell’aprile 1943 la notizia del ritrovamento dei cadaveri dei prigionieri polacchi è data ufficialmente accusando i sovietici del crimine. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Reich, diffonde la notizia tramite Radio Berlino sperando di creare una spaccatura nella nuova alleanza anti-nazista tra URSS e alleati occidentali. I sovietici sostengo esattamente il contrario: la colpa è dei nazisti. Quindi i tedeschi istituiscono una commissione internazionale d’inchiesta, sotto il patrocinio della Croce Rossa Internazionale, con rappresentanti di dodici paesi (per l’Italia il medico legale Vincenzo Palmieri). La commissione, dopo attente indagini sul posto, decreta che il massacro è stato compiuto senza alcun dubbio nella primavera del 1940, quindi è opera dei sovietici. L’URSS non riconosce il verdetto e continua a sostenere la propria tesi: le uccisioni sono dei nazisti, e chiunque nega questa “verità” è in combutta con i nazisti o comunque fa il loro gioco.

Per quasi 50 anni l’URSS avrebbe negato nel modo più assoluto la sua responsabilità per il massacro di Katyń, scatenando in tutto il mondo una terribile offensiva di propaganda per parare e smantellare ogni accusa, quindi occultare il crimine compiuto dal NKVD. L’offensiva, che dura mezzo secolo, si dispiegaa tutti i livelli attraverso ripetute falsificazioni, mistificazioni, diversivi, contro-verità, attacchi ideologici, minacce, compresi omicidi, eccetera. A posteriori, a distanza di tanto tempo, è difficile credere a quali vette di disinformazione e di violente intimidazioni siano giunti i sovietici per costruire e mantenere – nonostante tutte le evidenze, le perizie, le prove – quello che gli storici considerano essere la loro grande “menzogna di Katyń”. Fino al 1989 nella Polonia comunista parlare ad alta voce di Katyń era tabù e si rischiava. Solo dopo il 1989, nella nuova Polonia si poté narrare apertamente questa drammatica vicenda.

Al cinema il film Katyń diretto dal regista Andrzej Wajda è del 2007.

La cosa assurda è che persino gli occidentali per “quieto vivere”, “lingua biforcuta”, “testa di struzzo”, “coda di paglia” e accettazione della “logica dei blocchi” negavano, banalizzavano o contribuivano a insabbiare la verità su Katyń.

Mikhail Gorbaciov sale al potere nel 1985. Nel 1987 il nuovo leader dell’URSS acconsente a che sia istituita una commissione mista polacco-sovietica di storici membri del Partito (PZPR e CPSU) per chiarire le “zone grigie” e i “buchi neri” nella storia delle reciproche relazioni tra URSS e Polonia. Tra i temi sensibili c’è anche il massacro di Katyń. Ma è solo il 13 aprile 1990 (a crollo dell’Est già avvenuto) che Mikhail Gorbaciov ammette ufficialmente la responsabilità sovietica. Il crimine è stato compiuto dal NKVD – dice pubblicamente – e Katyń è stato “uno dei gravi crimini dello stalinismo”. Le sue scuse ufficiali avviano un inizio di riappacificazione sulla questione. Ma i documenti che provano le responsabilità? Sono stati distrutti, risponde Mikhail Gorbaciov.

Nel 1992 Boris Elstin consegna al presidente polacco Lech Walesa alcuni documenti top secret. Tra questi: la proposta del marzo 1940, di Lavrentij Berija, di passare per le armi 25.700 polacchi dei campi di Kozelsk, Ostashkov e Starobelsk e di alcune prigioni della Bielorussia e dell’Ucraina occidentali, con la firma (tra gli altri) di Stalin; estratti dell’ordine del Politburo del 5 marzo 1940; la nota di Aleksandr Šelepin a Nikita Chrušcëv del 3 marzo 1959, con informazioni sull’esecuzione di 21.857 polacchi e con la proposta di distruggere i loro archivi personali. È un nuovo salto di qualità in questa lunga e triste vicenda per la quale per decenni i polacchi sono stati tacciati di russofobia. Nel 2005 la Russia chiude il caso, ma molti aspetti relativi a questo crimine non sono ancora state del tutto chiarite.