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La staffetta: una regola nello sport, non nella politica 

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di Antonino Gulisano

L’Italia la fanno volare quattro ragazzi italiani sulla pista olimpica di Tokyo, è una notte magica quella della 4×100 azzurra, oro ai Giochi. Una staffetta perfetta e che ha una regola: fiducia e tempestività.
No, la staffetta non è nelle corde italiche. Almeno quelle politiche. Mai fidarsi degli amici. Una regola opposta a quella che vige nello sport, lì il testimone è filato liscio come gli anelli tra le mani dei fidanzati.
Gli azzurri hanno regalato emozioni fortissime, impossibili da dimenticare. Un minuto dopo che Tortu ha tagliato il traguardo, arrivano la telefonata del presidente della Repubblica, Mattarella (“bravissimi”) e i complimenti di Draghi. Ma è un intero popolo a gioire.
La storia dimostra che nella politica italiana, invece, le staffette non funzionano.
I leader politici non sono abituati alla fiducia e alla tempestività e non sanno cosa sia la staffetta in politica. Si sono spesso accordati per spartirsi il potere e magari anche la carica di presidente del Consiglio, ma alla fine hanno sempre tradito le promesse. La verità è che le successioni non sono mai pacifiche, una regola opposta a quella che vige nello sport.
Ricordate? 1997: Romano Prodi sostituito da Massimo D’Alema con l’aiuto di Cossiga, poi il medesimo D’Alema perdente alle Regionali che se ne va e viene sostituito da Amato, sostituito come candidato premier, con un certo suo disappunto, da Francesco Rutelli. Risultato: un disastro politico, un capolavoro autodistruttivo, e 5 anni di governo Berlusconi come punizione.
Nella primavera del 2001 – si era a poche settimane dalle elezioni politiche – Giuliano Amato con la sua abilità dialettica cercò di spiegare, addolcendolo, il casino combinato dal centrosinistra in quella legislatura. «Ci siamo passati il testimone in questa staffetta ed ora Francesco vai a vincere!», disse l’allora presidente del Consiglio raccogliendo un meritato applauso. Il problema era che la “staffetta” aveva funzionato malissimo: anzi, non doveva proprio esserci.
Se quella del centrosinistra 1996-2001, o meglio del PD, fu una bischerata, risultante di evidenti conflitti di potere interni, ce ne fu un’altra – questa programmata ma altrettanto fallimentare – la famosa staffetta Craxi-De Mita negli anni Ottanta. Il leader democristiano, nel 1983, dopo l’unica vera batosta elettorale della storia della Democrazia cristiana, si accordò in gran segreto con Bettino Craxi: a palazzo Chigi metà legislatura ci vai tu e l’altra metà io (o comunque un democristiano).
Craxi divenne premier e ci prese gran gusto. Non mollava la poltrona. D’altronde erano anni in cui le cose giravano bene. De Mita si fidava: «Staranno ai patti? Io vi dico di sì», urlò in un comizio ad Avellino. Ma niente: per farla breve Craxi lo fregò e nel febbraio ‘87 andò a Mixer, il programma di Giovanni Minoli e sbuffò: «La staffetta non esiste». E dopo, ai giornalisti che chiedevano lumi: «Ma avete sentito, no? La staffetta è liquidata». Poi ci si chiede perché De Mita abbia detestato Craxi così tanto. Fine della storia: di lì a pochi anni Dc e Psi vennero liquidati da Di Pietro.
In anni più ravvicinati si è parlato impropriamente di staffetta Letta-Renzi, che com’è noto a momenti non riuscivano a passarsi una campanella, figuriamoci un testimone. Letta non volle guardare negli occhi colui che a suo dire l’aveva tradito, fu uno scontro violento, una ferita che ancora non si è rimarginata. «Stai sereno» è diventato proverbiale per dire che sta partendo lo stiletto, più che il testimone. E non fu certo una staffetta neppure il passaggio da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni, già suo ministro degli Esteri, un colpo che il primo si inferse da solo, e giustamente, dopo la botta referendaria del 2016.
Poi si è anche favoleggiato di una staffetta Salvini – Di Maio, che nel 2018 vinsero le politiche nel segno del trionfo del populismo, sfruttando una poderosa risacca anti-renziana. Ovviamente i due cominciarono a farsi la guerra ancor prima che venisse dichiarata ed entrambi finirono a reggere la scala del più marpione di tutti, quel Giuseppe Conte.
Se l’Italia oggi vola in economia, oltre che nello sport, è perché c’è un velocista, che sa lavorare e guidare il gruppo dell’attuale governo. In prospettiva non può esserci una staffetta in corsa, bisogna disputare un’altra gara diversa e nuova.