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La newsletter su economia e lavoro a cura di Alessandro Lubello

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La crisi del latte artificiale

Tra la guerra in Ucraina, l’inflazione e gli incendi nel sud del paese, gli Stati Uniti sono alle prese con un’altra crisi: quella del latte artificiale per i bambini, che all’improvviso è diventato introvabile, scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il prodotto è molto richiesto, visto che il latte materno è il nutrimento esclusivo di meno della metà dei neonati statunitensi nei primi tre mesi di vita, e di appena il 25 per cento fino ai sei mesi. All’origine della carenza, spiega il quotidiano tedesco, ci sono i problemi della Abbott Laboratories, principale produttrice di latte artificiale del paese, costretta a ritirare gran parte della merce dal mercato dopo la morte di due bambini a febbraio e a chiudere il suo impianto di Sturgis, nel Michigan, dove sono state trovate tracce di un batterio. Le indagini non hanno ancora stabilito le responsabilità dell’azienda. La produzione, intanto, non è ancora ripresa.

La crisi ha suscitato scalpore nell’opinione pubblica e ha raggiunto i vertici della politica statunitense. Il 12 maggio il presidente Joe Biden ha incontrato i rappresentanti dei produttori e della distribuzione e ha annunciato una serie di provvedimenti, tra cui l’aumento delle importazioni, visto che attualmente il 98 per cento del latte artificiale consumato negli Stati Uniti dipende dalla produzione interna, assicurata sostanzialmente da quattro grandi aziende: Abbott, Gerber, Mead Johnson e Perrigo Nutritionals. Il 16 maggio, inoltre, la Food and drug administration (Fda, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici) ha raggiunto un accordo con la Abbott per risolvere i problemi di sicurezza della produzione e far ripartire l’impianto di Sturgis, che comunque non sarà riattivato prima di due settimane e non garantirà più latte sugli scaffali dei negozi prima di sei, otto settimane. Intanto, diverse multinazionali che producono latte artificiale stanno cercando di aumentare le forniture agli Stati Uniti. La Gerber, che è controllata dalla Nestlé, ha richiesto scorte straordinarie ai suoi impianti nei Paesi Bassi e in Svizzera. La britannica Reckitt Benckiser, che ha anche stabilimenti negli Stati Uniti, ha deciso di aumentare del 30 per cento la produzione.

Russia

L’addio di McDonald’s

Il 16 maggio la McDonald’s ha annunciato la decisione di lasciare la Russia. La multinazionale statunitense aveva aperto il suo primo fast food nel paese nel gennaio del 1990, nel cuore di Mosca, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica, scrive Le Monde. “L’inaugurazione aveva attirato molte persone, desiderose di regalarsi il loro primo hamburger made in Usa. L’evento fu un vero e proprio simbolo della fine della guerra fredda”. In seguito all’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio, la McDonald’s, come altre multinazionali, si è chiesta cosa fare. Alla fine di febbraio l’azienda aveva sospeso le sue attività in Ucraina e in seguito, l’8 marzo, aveva deciso di fare la stessa cosa in Russia. La misura, però, non poteva includere i ristoranti, circa un quinto del totale, non controllati direttamente dalla McDonald’s, cioè quelli in franchising. Adesso invece spariranno le sue insegne da tutto il paese e sarà fermata la commercializzazione dei menu e dei prodotti con il suo marchio. L’azienda ha precisato che metterà in vendita tutti i ristoranti e garantirà i compensi degli oltre sessantamila dipendenti russi fino alla fine dell’operazione.

Non si sa bene chi potrà comprare i ristoranti della McDonald’s e a quali condizioni. La Renault, ricorda il Washington Post, ha da poco ceduto il 68 per cento delle sue attività in Russia al produttore locale AvtoVaz per il prezzo simbolico di un rublo, mentre nei bilanci della casa automobilistica francese l’investimento era valutato in circa 2,3 miliardi di dollari. La McDonald’s molto probabilmente cederà i suoi ristoranti ai concorrenti locali, ma non esattamente a condizioni di mercato. Secondo la Bbc, dovrebbe essere l’imprenditore Aleksandr Govor, che attualmente gestisce 25 ristoranti McDonald’s in Siberia e rileverà le altre filiali introducendo un nuovo marchio. L’azienda, in ogni caso, ha deciso di accettare le perdite, perché ritiene che continuare a lavorare in Russia non ha molto senso dal punto di vista economico (fare affari in un paese praticamente isolato è costoso e difficile) e rischia di danneggiare il marchio, uno dei più famosi del mondo.

Lavoro

L’arrivo dei sindacato

Fino alla fine del 2021 nessuno dei circa novemila caffè della Starbucks negli Stati Uniti aveva una rappresentanza sindacale. In parte a causa della tenace opposizione dei vertici dell’azienda, ma anche per il fatto che i dipendenti erano pagati tutto sommato bene: ad agosto chiunque lavorasse per la multinazionale negli Stati Uniti riceveva almeno il salario minimo di quindici dollari all’ora (anche se nelle grandi città, per esempio a Seattle, questa cifra non permette di sbarcare il lunario). “Oggi invece”, scrive Bloomberg Businessweek, “più di sessanta caffè in 17 stati hanno deciso di aderire alla Workers united, un sindacato affiliato alla Service employees international union. Hanno seguito l’esempio dei dipendenti di un caffè di Buffalo, che si sono sindacalizzati all’inizio del 2022”. Attualmente, inoltre, i lavoratori di circa 175 filiali della Starbucks hanno chiesto di tenere referendum per formare una propria rappresentanza sindacale. Non sono la maggioranza dei caffè dell’azienda, ma dimostrano che l’ingresso dei sindacati nella Starbucks è ormai inevitabile, non impossibile come si pensava un tempo.

La Starbucks è diventata un modello a cui guardano i lavoratori di altre aziende, per esempio Amazon e la Apple. Lo ha ammesso lo stesso Christian Smalls, che ad aprile ha guidato con successo la formazione di una rappresentanza sindacale all’interno di un magazzino Amazon di Staten Island, a New York. Ma come mai tutto è cominciato proprio dalla Starbucks? “L’azienda”, osserva il settimanale, “ha ragione quando afferma che le campagne sindacali sono il sintomo di un malcontento più ampio che riguarda tutti i lavoratori del paese, in grado di fare richieste impensabili in passato”. Oggi, infatti,  le aziende soffrono di una grave carenza di personale e sono più disposte a concedere aumenti di salario e benefit. “I lavoratori della Starbucks non mettono in dubbio che l’azienda li tratti bene, ma vogliono di più: più soldi, più garanzie, ma anche più voce in capitolo nell’organizzazione del lavoro. E, incredibile a dirsi, ora potrebbero ottenerlo”.

Fonte:L’Internazionale