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“Indiana Jones” è l’omaggio di Cannes ai film che incassano

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AS BESTAS – LA TERRA DELLA DISCORDIA di Rodrigo Sorogoyen, con Denis Ménochet, Marina Foïs

Nervi saldi. Soprattutto voi che immaginate la campagna come pace e armonia, lontana dalle beghe di condominio e dagli sgambetti tra colleghi. La tensione da thriller – parliamo di cinema, non di buone maniere o riposante agriturismo – è stata celebrata con nove premi Goya. Più una lunga lista di riconoscimenti internazionali, e il regista madrileno non è nuovo a questi successi. I francesi Antoine e Olga decidono di iniziare una nuova vita vicino alla natura, coltivando pomodori e restaurando cascine disabitate della Galizia. I vicini non gradiscono: è gente che pare uscita dai monti Appalachi di “Un tranquillo weekend di paura”. “Aloitadores”, in spagnolo: domano i cavalli a mani nude. I forestieri sono odiati in quanto forestieri, e per via di un terreno da destinare a campo eolico. I contadini locali non vedono l’ora: la vendita del pezzo di terra porterebbe soldi, intanto vivono nei tuguri e si lavano malvolentieri. Gli stranieri sono contrari alle pale, temono l’impatto sul paesaggio. Scoppia una rissa, e la rissa diventa faida quando – dopo una serie di piccoli dispetti e male parole e sguardi minacciosi – Antoine si ritrova il campo devastato, e il raccolto di un anno invendibile. La violenza, annunciata nella prima scena e tenuta sottotraccia da un bravissimo regista, non risparmia lo spettatore. Film potente e viscerale, recitato dai sublimi Denis Ménochete e Marina Foïs, controcorrente in questi tempi di piccoli drammi e verdure del contadino.
Come sta Indiana Jones? Lui sarebbe un po’ acciaccato, per la verità. Ma il regista James Mangold gli ha cucito su misura un film tanto astuto che il divertimento resta. Siccome è venuto il tempo della correttezza, ecco che la classica scena “piantala di esibirti con la scimitarra, ho la pistola e la userò senza rispetto per le culture altre”, viene ribaltata. Il povero Indy si trova puntate contro un bel po’ di armi “etniche”, e abbozza. Altra novità: si possono sfottere solo i tedeschi, purché nazisti: “lascia stare, l’ironia non è roba per te”.
Nel prologo – le saghe ne hanno sempre uno, qui siamo al quinto film, il primo senza Steven Spielberg alla regia – torniamo al 1944. Indiana Jones e il professor Basil Shaw sono catturati dai nazisti, dopo essersi impossessati di un reperto archeologico caro al Terzo Reich. Che vorrebbe diventare millenario con l’aiuto di un marchingegno, detto “Quadrante del destino”: consente i viaggi nel tempo, e il vecchio Archimede prudentemente lo spezzò in due.
Stacco al 1969, la parata per festeggiare i primi uomini sulla Luna (ci sono andati, ci sono andati, non fu un lavoretto alimentare di Stanley Kubrick e neanche un’invenzione di Mangold e dei suoi sceneggiatori). Via i ritocchi che lo avevano ringiovanito (l’intelligenza artificiale è già tra noi), Indiana Jones sta a letto con i mutandoni, le pillole sul comodino, e borbotta contro i vicini che fanno rumore.
Con gli 80 anni di Harrison Ford (Palma d’oro alla carriera, e lacrime agli occhi durante il ringraziamento) ora pare pronto per i giardinetti. Ma una sparatoria, loschi figuri, e soprattutto la figlioccia – ovverosia Phoebe WallerBridge da “Fleabag” – lo fanno rimontare in sella. Non tanto per dire: ruba un cavallo dalla parata, scende le scale nella metropolitana, inseguito da un treno risale sulla banchina, si spolvera ed è pronto per altre mille avventure. Dalla Grecia alla Sicilia, con scorpioni, serpenti, murene, ponticelli sospesi, e molti teschi.
“Indiana Jones e il Quadrante del Destino” è l’omaggio che il Festival di Cannes – “dove si sta a lungo in fila per vedere film che eviteresti, se fossero nel cinema sotto casa ”, la definizione è da aggiornare, ma lo spirito resta – rende ai titoli che attirano spettatori e incassano soldi. Se possiamo tentare un pronostico, non sarà come “Top Gun: Maverick” l’anno scorso, ma un po’ di spettatori al cinema li porterà, nelle sale dal 28 giugno (la nostalgia non vale solo per gli spettatori di Nanni Moretti e “Il sol dell’avvenire”). Ai piani bassi, dove si tiene il Marché du Film, venditori e distributori sono più cauti. Dovrebbe essere l’anno del nuovo inizio, pandemia archiviata e spettatori di ritorno. Ma ancora non si vedono titoli capaci di spingere fuori casa il pubblico che ha passato l’età dei supereroi.
Anche quando uno spunto interessante ci sarebbe, in linea diretta con i dibattiti sui corpi non conformi, le scelte di sceneggiatura e regia restano classiche. Da film in costume senza neppure le libertà che si prende Maiwenn con “Jeanne du Barry” e Luigi XV. “Rosalie”, diretto da Stephanie Di Giusto, racconta la storia di Clémentine Delait, “la donna barbuta dei Vosgi”. Vissuta tra otto e novecento. Vendeva cartoline postali con il suo volto, e gestiva un caffè piuttosto frequentato, dai curiosi e dei gitanti che volevano vedere il fenomeno.
L’attrice che recita con la barba riccioluta, prima bionda e poi scura, è l’impavida Nadia Tereszkiewicz, che era stata una perfetta Valeria Bruni Tedeschi da giovane nel film “Forever Young”, ed è ancora nelle sale con “Mon crime – La colpevole sono io” di François Ozon. Rosalie si presenta al marito contadino Benoît Magimel con un abito accollato: “l’ho cucito con le mie mani”, aggiunge per puntare sulle virtù domestiche. Due bottoni slacciati la prima notte di nozze, e lui si ritrae orripilato (l’infelice genitore aveva corredato la figliola di un bel gruzzolo in contanti, ora sappiamo perché). In paese le voci corrono, Rosalie va al contrattacco. Smette di radersi, si acconcia per bene la barba, apre un caffè e comincia a pagare i debiti del consorte. Vorrebbe cantare e suonare, fare piccoli spettacoli di music hall. Un paio di fotografie spogliata e circondata di piume turbano di nuovo la pace del paesello – e non ci sono spettacoli da baraccone nei dintorni per far di lei una star.
“Rosalie” era nella sezione “Un certain regard” – diciamo il secondo concorso, più sperimentale ma non sempre, spesso è una questione di affollamento. Nella stessa lista c’era “Simple comme Sylvain” di Monia Chokri, nata in Québec ma di origini tunisine (e parecchio lavoro da attrice per Denis Arcand e Xavier Dolan). Una commedia amorosa, finalmente, genere che i festival perbene rifuggono perché divertirsi è male. Sofia insegna filosofia alla terza età, in attesa di meglio. Sposata da dieci anni con Xavier, si annoia parecchio. L’occasione per un po’ di divertimento si presenta nella casa di campagna, che secondo l’operaio Sylvain sta cadendo a pezzi.
Colpo di fulmine, ancora prima del preventivo sono a rotolarsi tra le lenzuola. Poi si sa come vanno queste cose: lei lascia il marito, e comincia a trovare lo zotico un po’ troppo zotico: opinioni sbagliate, vestiti orrendi, famiglia impresentabile. Scroscio di applausi, per grazia ricevuta, alla proiezione per la stampa. Due ore prima avevamo visto “Animal Kingdom” insopportabile film-metafora con gli umani che diventano animali – ma non tutti, viene il sospetto che c’entrasse il covid, e che il regista Thomas Cailley sia andato lungo sui tempi.
Realistico fino allo strazio è “Black Flies”, di Jean-stéphane Sauvaire. Sean Penn e Tye Sheridan intubano, ricuciono ferite, defibrillano cuori, curano crisi d’astinenza a bordo di un’ambulanza dei pompieri, a Brownsville, Brooklyn. Sembra di non riuscire a resistere neppure un minuto, ma è troppa la bravura. Se amate il cinema.

Fonte: Il Foglio