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Il diritto di non emigrare

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Andrea Venanzoni

Gramo spirito dei tempi quello in cui il solo accennare al diritto di non emigrare vien quasi rubricato a mascheramento semantico di intolleranza o di egoismo nazionale. Eppure, proprio perché viviamo in un momento storico che si interroga sulla continuativa, inarrestabile produzione di diritti, alcuni dei quali a ben vedere diritti non sono, dovremmo fermarci a riflettere sul patrimonio individuale di ciò che Rodotà ha definito ‘il diritto di avere diritti’.
E tra questi diritti, lo ricordava l’11 maggio scorso il Pontefice nel suo messaggio che anticipa la centonovesima Giornata mondiale del Rifugiato e del Migrante, si situa esattamente anche il diritto a non dover emigrare, intendendo per tale il consolidamento della libera scelta di decisione, di autodeterminazione e di autoaffermazione del proprio progetto di vita, da portarsi a compimento a casa propria o in altri Paesi. Libertà di scelta, appunto.
E mentre assistiamo alle drammatiche scene da zattera della Medusa che punteggiano le acque del Mediterraneo e il carnaio continuo, disperato e disperante, che popola Lampedusa in questi ultimi giorni, come l’ha popolata negli anni scorsi, viene da dire che assai spesso quel diritto è un diritto negato: perché molti degli individui che emigrano, che si lasciano alle spalle affetti, famiglie, l’orizzonte che li ha cullati e visti crescere, non hanno altra scelta. Fuggono da carestie, miseria, guerre, da Paesi insicuri e sovente squassati da colpi di Stato o da endemico terrorismo. Parlare di una libera scelta di emigrazione, in questo contesto, sarebbe semplicemente folle.
In questo caso, pertanto, come non aveva mancato di rilevare anche il predecessore di Papa Francesco, Benedetto XVI, la fuga da una persecuzione, da una situazione disastrosa di conflitto, da una miseria senza speranza di cambiamento sociale, annulla l’idea stessa di una libertà di scelta.
Il punto vero della questione è pertanto individuare e distinguere le situazioni che fanno scaturire condizioni di protezione internazionale da quelle che al contrario sono riconducibili alla libera scelta individuale e che come tali, in questa ultima prospettiva, devono essere bilanciate con le considerazioni di ordine sovrano del singolo Stato. È d’altronde pacificamente riconosciuto che al diritto alla mobilità, connotato e riconosciuto da Convenzioni e Carte internazionali e normativa UE, corrisponda anche simmetricamente uno ius excludendi, ciò che la giurista statunitense Joy M. Purcell definisce il ‘sovereign’s right to exclude’, dettato da precise, cogenti motivazioni, quali quelle ad esempio di sicurezza nazionale o altre dettate, nel caso dei migranti per scelta economica, dal concreto tessuto economico del singolo Paese potenzialmente ricevente. Riconoscere un diritto a non dover emigrare significa in primo luogo venire a patti con la drammatica condizione che pone le premesse per le emigrazioni di massa.
È certo vero, come sostiene Parag Khanna, che stiamo vivendo anni di autentico ‘movimento del mondo’ e che digitalizzazione, impoverimento neocoloniale di vaste aree, realizzazione di mega-infrastrutture, estrattivismo, finiscono per determinare flussi ininterrotti di emigrazione, ma al tempo stesso appare innegabile come molte delle cause da cui originano sradicamento e migrazioni di massa debbano essere affrontate e non fatalisticamente prese per un dato di fatto immodificabile.
Per anni abbiamo sentito parlare delle nefaste conseguenze del colonialismo, di come l’occidente abbia depredato il terzo mondo, di quanto la fase storica della de-colonia lizza zio n esi astat apoliticamente e socialmente incompleta e irrisolta. Meno però si parla del neocolonialismo che getta le basi per sempre nuove premesse di migrazioni forzate. Delle multinazionali avide che hanno immiserito Africa e Asia continuiamo polemicamente a sentir parlare, verissimo. Come pure d el l’ estr attivismo che anima il dibattito politico, giuridico, sociologico ed economico. Sentiamo invece meno parlare, e certo con assai minore enfasi, di quanto Paesi emergenti e potenti, come la Cina, stiano conducendo aggressive politiche predatorie nei confronti ad esempio dell’Africa.
La penetrazione invasiva e capillare della Cina in Africa non si traduce solo in affermazione strategica in prospettiva politica ed economica, ma anche in alterazione radicale degli ecosistemi, in distruzione di intere aree interessate ad esempio dal passaggio delle opere infrastrutturali del capitolo africano della ‘Via della Seta’, come non ha mancato di riconoscere la Corte Suprema del Kenya che queste opere ha fieramente opposto in una autentica saga giudiziaria.
In un significato volume dal titolo ‘Il diritto di non emigrare’, edito da Lindau, Maurizio Pallante ha ricordato poi un altro fenomeno che spinge ad emigrazioni di massa, decisamente poco volontarie: una sorta di auto-colonizzazione interna a Paesi come India e Cina che nel tentativo di modernizzarsi producono a ritmo continuo mega-infrastrutture che incidono drasticamente su intere Regioni, costringendone gli abitanti ad emigrare.
Piuttosto ipocrita configurare la categoria dei migranti climatici e rimanere silenti su quanto e come Cina e India inquinando massivamente finiscano per incidere anche in questo ambito delle emigrazioni.
Inutile poi nascondere che dietro instabilità politica e scarsa evoluzione economica e sociale di alcuni Paesi vi siano anche le classi governanti e le élite di quegli stessi Paesi, che non meritano di essere assolte o deresponsabilizzate e che invece andrebbero formate alla responsabilità istituzionale.
In concreto, la affermazione del diritto di non emigrare si deve tradurre in partnership strategiche ed economiche con i Paesi in via di sviluppo e da cui provengono i maggiori flussi di migrazione, per il contrasto al neo-colonialismo cinese, per una ridefinizione in termini di politiche pubbliche della piena responsabilizzazione delle società commerciali che praticano accaparramento di risorse naturali o chiudono un occhio su lavoro semi-schiavistico o minorile.

Fonte: Il Riformista