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IL CEDIMENTO DEL CENTRO E I RISCHI DI UN SISTEMA SEMIPRESIDENZIALE

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Michele Prospero

Nelle sue considerazioni sul ruolo stabilizzatore che nelle democrazie moderne ricopre il centro (inteso, più che come un partito distinto dagli altri, come un largo atteggiamento pro-sistema costituzionale delle principali culture politiche), Panebianco inserisce anche un riferimento storiografico che non pare del tutto persuasivo e ha incidenza anche nel dibattito sulle dinamiche politiche di oggi. Sul Corriere scrive che “quando il centro si svuota, perché il grosso degli elettori fugge verso le estreme, la democrazia è a rischio”. Ma durante il fascismo accade il contrario: non il dimagrimento del centro dinanzi alla espansione dell’estrema destra ma la cecità del centro sleale distrusse il regime liberale.
Di per sé il presidenzialismo non è incompatibile con la procedura e i valori della democrazia, ma Giorgia Meloni recupera questo tema per rompere le compatibilità istituzionali della vecchia Repubblica. Appare come un atto fondativo fuori dalla Costituzione
Nelle sue considerazioni sul ruolo stabilizzatore che nelle democrazie moderne ricopre il centro (inteso, più che come un partito distinto dagli altri, come un largo atteggiamento pro-sistema costituzionale delle principali culture politiche), Angelo Panebianco inserisce anche un riferimento storiografico che non pare del tutto persuasivo e ha incidenza anche nel dibattito sulle dinamiche politiche di oggi. Sul Corriere scrive che “quando il centro si svuota, perché il grosso degli elettori fugge verso le estreme, la democrazia è a rischio. Dall’Italia prima del fascismo a Weimar, al Cile di Allende, è lungo l’elenco di casi in cui lo svuotamento del centro ha decretato la morte della democrazia”. Per la Germania questa asserzione ha degli elementi di validità: l’ascesa elettorale dei nazisti fu in effetti sensazionale, anche se la quota di voti ottenuta non sarebbe bastata alla costruzione del “doppio Stato” se non si fosse aggiunto anche un cedimento di settori residuali del centro. Rispetto al crepuscolo di Weimar, va precisato che “l’ascesa di Hitler al cancellierato non avvenne – come spesso si è ripetuto – sulla base di una coalizione maggioritaria: il governo da lui costituito era un governo minoritario” (F. Gaeta, Democrazia e totalitarismi, Bologna, 1982, p. 352). Il centro che evapora non è una astratta dimensione spaziale, il sostrato del processo è nella crisi sociale che produce 6 milioni di disoccupati, con oltre 23 milioni di tedeschi che vivevano a stento solo grazie a un piccolo sostegno reddituale pubblico.
È evidente che nel novembre del 1932 “con 100 comunisti e 196 nazisti in un parlamento di 584 membri, i partiti radicali avevano l’opportunità di bloccare tutto il lavoro legislativo” (H. Holborn, A History of Modern Germany, London, 1969). Ma, per spingere sino al crollo della repubblica, oltre alla paralisi determinata dalle maggioranze negative, anche le possibili “maggioranze leali” fecero di tutto per dissolvere il sistema politico. La coalizione costituzionale, che agli esordi della repubblica aveva il 76% dei voti, si era sgretolata, la Spd dal 38% del 1920 era precipitata al 21% e l’ingovernabilità aveva eroso la repubblica.
Diversa è la genesi della caduta del regime liberale in Italia. Nell’ascesa del fascismo non si rintraccia alcuna fuga elettorale verso le estreme con conseguente svuotamento del centro. I pieni poteri all’uomo nuovo vennero concessi non per effetto del voto (che regalò ai fasci appena 37 seggi), ma per la slealtà dei signori dello Statuto.
Si trattò per questo, come è stato scritto nei Quaderni, di un episodio di sovversivismo dall’alto. Le classi dirigenti liberali e monarchiche si convinsero a sdoganare il partito armato fondato dal “popolano impetuoso” (definizione di Giolitti) per costituzionalizzarlo, senza alcun esito se non la distruzione dell’ordinamento costituzionale (già all’epoca questo fenomeno fu spiegato molto bene da Ernesto Rossi – “i padroni del vapore” – e da Salvemini – “la congiura militare”)
Giolitti se la prese con “la maledetta legge elettorale”, ma la proporzionale non lo obbligava di certo ad ospitare nel suo Blocco nazionale un partito totalitario e violento (sotto il piombo fascista, e nella sostanziale impunità, caddero 3000 socialcomunisti nel solo 1921-22). Con la benedizione della slealtà del centro politico-istituzionale, della cultura (Pareto suggerì al duce: “ora o mai più”), un partito armato, che ricorreva al terrore, entrò a far parte della coalizione elettorale di Giolitti. Malgrado la violenza, il terrore (persino nel giorno delle votazioni si contarono 40 morti e 70 feriti gravi), i social-comunisti e i popolari (in corsa solitaria in segno di disobbedienza al Vaticano e trattati con il pugno di ferro sebbene esprimessero diversi ministri nell’ultimo governo giolittiano) persero pochissimi seggi.
Giolitti sosteneva che le polveri da sparo contro i rossi erano “soltanto fuochi d’artificio” e “i fascisti sono i nostri Black and Tans”. Erano milizie nere che però uccidevano in modo incontrollato e al potere (politico, economico e mediatico) piacevano perché, come disse Mussolini dopo l’ascesa al governo con la concessione dei pieni poteri, il primo obiettivo era quello di “abolire lo Stato collettivista” del dopoguerra.
Non il dimagrimento del centro dinanzi alla espansione dell’estrema destra ma la cecità del centro sleale distrusse il regime liberale. “Accettando i fascisti come alleati, Giolitti commise il più grave errore di tutta la sua lunga carriera. Nel 1921 lo stato liberale era ancora abbastanza forte per resistere; ma Giolitti era vecchio e attaccato alle sue illusioni. Ben presto sarebbe stato troppo tardi per poter far altro che arrendersi” (C. Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, Vol. II, Laterza).
Ci sono insidie anche oggi per la tenuta dell’ordinamento? La combinazione di cedimento del centro pro-sistema e mobilitazione dal basso (sovranismo e populismo) lancia una forte incognita. Secondo Panebianco dopo la crisi di sistema del 2018 una fugace ricomposizione del centro si ebbe con la larga coalizione a sostegno del governo Draghi. L’effetto stabilizzatore e centripeto del momento Draghi, che portava al reciproco riconoscimento degli attori, è stato però interrotto quando Lega e Forza Italia hanno staccato la spina, accodandosi, in un accordo subalterno, al solo partito che ha rifiutato la confluenza centripeta per una gestione condivisa della fase emergenziale.
Più che di pericolo fascista in un senso tradizionale (anche se l’editoriale del primo agosto del “Corriere della sera” inneggiava incredibilmente, con la penna di Galli della Loggia, all’ideologia nera degli anni Trenta: “Dio, patria e famiglia sono valori dalla nobile storia”), esiste il problema sollevato con forza da Rino Formica: l’assalto alla Costituzione repubblicana con robuste torsioni di sapore antiparlamentare e plebiscitario.
Quando Meloni lancia la campagna elettorale con l’idea-forza del presidenzialismo non lo fa certo per partecipare ad un concorso sui modelli costituzionali comparati. Recupera questo tema (di per sé il presidenzialismo, naturalmente, non è incompatibile con la procedura e i valori della democrazia) per rompere le compatibilità istituzionali della vecchia Repubblica, disegnata nella seconda parte della Carta nelle forme del sistema rappresentativo-parlamentare.
Un fattore di crisi, già a Weimar, si rivelò proprio il semipresidenzialismo, che oggi attira gli pseudo-partiti italiani per i suoi presunti effetti terapeutici. Lungi dall’essere un custode della Costituzione, il capo dello Stato weimariano unto dalle schede operò come un attore profondamente sleale. In condizioni come quelle attuali, descritte anche da Panebianco come attraversate da forti radicalizzazioni partigiane che svuotano il centro pro-sistema costituzionale, ricorrere all’elezione diretta del capo monocratico è come affidare al conte Dracula la risoluzione dei problemi acuti di anemia. Non basta certo l’asse atlantico che unisce Pd e FdI a sostituire un arco costituzionale evaporato (il “centro” della Repubblica) e ad operare come una solida coalizione dominante in grado di sorreggere gli istituti di un moderno Stato costituzionale di diritto. Le preoccupazioni di Juan Linz sull’impatto negativo degli innesti presidenziali entro regimi vulnerabili (persino la costituzione democratica più antica del mondo è stata ferita dall’assedio al parlamento sotto lo sguardo compiaciuto di un presidente dai capelli arancioni) sono confermate dalle prolungate difficoltà sistemiche della Quinta Repubblica.
Sebbene lo stampino semipresidenziale piaccia a molte forze anche oltre il perimetro della destra radicale (lo invoca da tempo, ad esempio, Veltroni), esso, congiunto all’autonomia differenziata promessa alla Lega, è incompatibile con le riforme incrementali che si possono adottare restando nel solco dell’articolo 138. Il sistema dei poteri della Repubblica è certo suscettibile di revisione, ma il presidenzialismo non si configura, nelle ambizioni revansciste della destra, come una riforma parziale. Esso appare, piuttosto, come l’atto fondativo di una nuova Repubblica.
Solo un’assemblea costituente potrebbe varare una così grande riforma (presidenzialismo e autonomia), e però il potere costituente, lo dichiarava già Kant, è un diritto alla rivoluzione che giace al di fuori dei poteri della costituzione. È un fatto, una rottura (“uno sfascio”, dice Panebianco), non una riforma. Una formale Seconda Repubblica è il sogno antico di una destra radicale che, non a caso, conserva la fiamma tricolore come simbolo di una legittimazione storico-identitaria che affonda le proprie radici in una esperienza valoriale diversa da quella della Costituzione democratica. Il “centro” come area della lealtà costituzionale non può che guardare con allarme a una normale consultazione elettorale tramutata in processo costituente.

Fonte: il Foglio quotidiano