Luciano Violante *
Tutti sono d’accordo nel ritenere opportuna una riforma costituzionale per la stabilità e l’efficienza, ma sinora non è stato depositato nessun progetto di legge e si discute prevalentemente di tre modelli astratti: presidenzialismo, semipresidenzialismo o parapresidenzialismo. A quest’ultima categoria appartiene l’ipotesi della elezione diretta del Presidente del Consiglio. Lo schema è quello dei sindaci e dei presidenti di Regione, che prevede l’elezione diretta, la garanzia della maggioranza precostituita e lo scioglimento del consiglio comunale o regionale in caso di dimissioni o sfiducia. Questa dipendenza delle sorti dei consigli dalla sorte del sindaco o del presidente di Regione è costituzionalmente legittima perché i consigli comunali e regionali, a differenza del Parlamento, non sono un potere dello Stato. Invece una riforma che applicasse questo schema alle istituzioni nazionali violerebbe la Costituzione perché renderebbe il Parlamento un’appendice del governo, contro il principio della separazione dei poteri, fondamentale in tutte le democrazie. È significativo che questa ipotesi non esiste né negli Stati Uniti, che hanno un regime presidenziale, né in Francia che ha un regime semipresidenziale. La conseguenza è che oggi Biden non ha maggioranza nella camera bassa e Macron non ha maggioranza nell’Assemblea nazionale. In definitiva, né presidenzialismo, né semipresidenzialismo, né parapresidenzialismo assicurano la governabilità perché un capo dell’esecutivo eletto direttamente potrebbe non avere maggioranza in Parlamento. Inoltre l’Italia, in caso di elezione diretta del presidente del consiglio, avrebbe due vertici. Uno, il presidente del consiglio, legittimato dal voto popolare, l’altro, il Presidente della Repubblica, meno legittimato politicamente perché eletto dal Parlamento e non dal popolo, ma con forti poteri di blocco del governo, compreso il potere di autorizzare la presentazione da parte del governo di disegni di legge in parlamento: il contrario della stabilità e della efficienza. In sostanza, al volto popolare non si possono conferire effetti che esso non può avere. È una laica e ragionata obiezione nei confronti di una interpretazione taumaturgica di quel voto che legittima l’eletto, ma non può sostituire tutti gli altri strumenti della decisione politica. Questo è il motivo per il quale nessuna democrazia prevede questa forma di governo. L’esperimento fu tentato in Israele nel 1996 per garantire la stabilità; venne abbandonato cinque anni dopo, perché non aveva assicurato l’obbiettivo. L’ultima obiezione tecnica riguarda la macchinosità di riforme così radicali, che comportano il cambiamento di circa un terzo della Costituzione, con tutte le difficoltà connesse. Un argomento più politico riguarda la struttura delle moderne società democratiche. Si tratta di società conflittuali nelle quali l’elezione diretta del “capo” divide il paese in due parti contrapposte prive di un arbitro e aggrava i conflitti perché il Presidente è considerato dai suoi avversari il capo di una fazione, non il capo dello Stato. La situazione americana e francese è esemplare delle difficoltà attuali dei regimi ad elezione diretta. Tuttavia la spinta per l’elezione diretta è espressione di una esigenza reale: avere governi stabili e un sistema capace di decidere. Per queste ragioni potrebbe essere più conveniente cominciare a discutere di un sistema diverso, che, consapevole del fallimento delle “grandi riforme” Berlusconi e Renzi, si ispiri al criterio del minimo indispensabile e non a quello del massimo possibile: Il parlamento a camere riunite dà la fiducia al solo presidente incaricato; Il presidente, ottenuta la fiducia, compone entro quindici giorni il governo e ne comunica la costituzione alle camere; Il presidente può chiedere al presidente della Repubblica, oltre che la nomina, la revoca dei ministri e lo scioglimento delle camere; La mozione di sfiducia, per essere ammissibile, deve contenere il nome del futuro presidente del consiglio e la sua dichiarazione di assenso (sfiducia costruttiva); L’approvazione della mozione di sfiducia costruttiva immette immediatamente in carica il presidente designato, che entro quindici giorni deve comporre il governo e deve comunicarne alle camere l’avvenuta costituzione; Il Parlamento vota sempre in seduta comune la fiducia e la legge di bilancio; vota in seduta comune altre leggi, mozioni e risoluzioni quando richiesto dai due terzi della Camera o del Senato. Occorre valutare le conseguenze della mancata costituzione del governo entro i quindici giorni; una ipotesi potrebbe essere quella dello scioglimento delle Camere. * Ex presidente della Camera dei Deputati
Fonte: Il Riformista