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I CARABINIERI QUARTA FORZA ARMATA

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Storia dell’Arma. 43 – Nell’anno 2000 l’Arma conobbe una profonda trasformazione. Conquistò, quasi due secoli dopo la fondazione, l’autonomia rispetto all’Esercito e arruolò le prime donne. Nel 2003, i Carabinieri subirono una delle più gravi tragedie della loro storia: dodici militari persero la vita a Nassiriya, in Iraq, vittime di un attentato terroristico

Nell’anno 2000 all’Arma dei Carabinieri venne riconosciuto il rango di Forza Armata autonoma, la quarta italiana che si aggiunse all’Esercito, alla Marina e all’Aeronautica. Fino ad allora (nei 186 anni precedenti, a partire dalla fondazione) era stata parte integrante dell’Esercito, costituita nel 1814 come “Corpo… primo fra gli altri nell’Armata” e confermata con la grande riforma post-unitaria, come prima Arma dell’Esercito. La nuova fisionomia istituzionale fu il frutto di una legge delega (la numero 78 del 31 marzo 2000) che produsse i suoi effetti con i successivi decreti legislativi (numero 297 e 298) approvati dal parlamento il 5 ottobre successivo. Entrati in vigore il 24 ottobre, i decreti, nel conferire all’Arma una collocazione autonoma nel ministero della Difesa con rango di Forza Armata, fissano la dipendenza diretta dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, ribadiscono quella funzionale dal Ministro dell’Interno e pongono in rilievo, in materia di compiti militari – oltre a quelli tradizionali di concorso alla difesa della Patria, di salvaguardia delle libere istituzioni, di tutela del bene della collettività nazionale e di polizia e sicurezza militare –, l’apporto considerevole che i Carabinieri forniscono nelle operazioni di mantenimento e ristabilimento della pace all’estero, nella sicurezza delle rappresentanze diplomatiche, consolari e degli uffici degli addetti militari, nonché le funzioni di polizia giudiziaria militare sancite nei codici penali militari. Le nuove norme, inoltre, indicano le innovazioni che razionalizzano la struttura organizzativa dell’Arma, precisata, per la prima volta, in una norma di legge.
La nuova struttura previde: un Comando Generale “che costituisce l’organo di direzione, coordinamento e controllo di tutte le attività istituzionali, con particolare riferimento a quella di analisi dei fenomeni criminosi e di raccordo delle attività operative condotte dai reparti dell’Arma”; una Organizzazione addestrativa “che attende alla formazione, all’aggiornamento ed alla specializzazione del personale dell’Arma con al vertice il Comando delle Scuole dell’Arma retto da un Generale di Corpo d’Armata – da cui dipendono le Scuole Ufficiali, Marescialli, Brigadieri e Carabinieri”; una Organizzazione territoriale “che si afferma quale componente fondamentale dell’Istituzione”. Alla revisione della struttura ordinativa dell’Arma, si affiancò una serie di provvedimenti organizzativi tendenti all’ulteriore snellimento delle attività burocratiche, logistiche e amministrative e al recupero di personale impiegato in compiti “non operativi”, per restituirlo all’attività primaria del controllo del territorio, sia in fase preventiva sia repressiva. In questa prospettiva, si agì anche sulla catena logistico-amministrativa, basata su oltre 4.600 distaccamenti amministrativi presso tutte le Stazioni Carabinieri e 26 enti amministrativi presso i vari Comandi di Corpo.
La razionalizzazione del settore configurò la nuova struttura su: 108 Sezioni amministrative, già istituite presso i Comandi Provinciali e di Gruppo, destinate ad assolvere tutte le funzioni finora devolute alle 4.664 Stazioni; 44 Distaccamenti amministrativi presso i Comandi di Regione e di Corpo; 6 Enti Amministrativi (Raggruppamenti Tecnico-Logistico-Amministrativi), presso i 5 Comandi Interregionali, ed il Reparto Autonomo del Comando Generale, che “alle consolidate branche finora devolute agli Enti Amministrativi Regionali affiancheranno quelle del Genio, per la gestione dei problemi infrastrutturali, e del supporto psicologico ai militari, mediante specifiche Sezioni inserite nel Servizio Sanitario dei Raggruppamenti”.
I decreti prevedevano anche l’accelerazione delle carriere e un misurato aumento degli organici, volti a migliorare il rapporto tra ufficiali e forza organica complessiva (fino ad allora nettamente inferiore rispetto a quello delle altre Forze). I decreti hanno anche esteso la possibilità per i marescialli di accedere ai ruoli ufficiali. Per preservare l’efficienza del sostegno logistico, non più assicurabile dagli ufficiali dei Corpi Logistici dell’Esercito all’uopo distaccati “in numero già ora insufficiente e per di più destinati ad essere in breve tempo fortemente ridotti per effetto della progressiva diminuzione dell’organico complessivo delle Forze Annate, e per razionalizzare ed economizzare, anche in questo settore, l’articolazione delle strutture e l’impiego del personale, è stato infine costituito (…) un ruolo tecnico-logistico nel quale far confluire professionalità di vario genere, tutte altamente specializzate nei settori di rispettiva pertinenza (investigazioni scientifiche, telematica, genio, medicina, amministrazione) ed assemblate al fine di poter soddisfare in maniera autonoma ed efficace le specifiche esigenze tecniche, logistiche e amministrative dell’Arma”.

LE DONNE ENTRANO NELL’ARMA. Nel 2000 ci fu un’altra rivoluzione per tutte le Forze Armate e, quindi, anche per l’Arma. Una rivoluzione “rosa”. Furono arruolate le prime donne carabiniere, in applicazione della legge approvata nell’ottobre del 1999 che prevedeva l’ingresso nelle Forze Armate di personale femminile. L’ingresso nell’Arma è stato disciplinato in modo graduale, sia per oggettivi problemi infrastrutturali (la predisposizione di alloggi dedicati alle donne negli istituti di istruzione e nelle strutture operative territoriali), sia per cercare di favorire al meglio l’integrazione, provvedendo a formare, prima, il personale femminile che avrebbe dovuto, poi, mettere a sua volta a disposizione delle nuove leve le esperienze e le conoscenze necessarie. Sono stati, quindi, banditi concorsi per reclutare, nell’ordine, donne ufficiali, poi marescialli ed infine carabinieri. Le prime ufficiali donne a indossare le stellette nell’Arma dei Carabinieri, nell’anno 2000 vinsero il concorso per tenenti in servizio permanente effettivo del ruolo tecnico logistico amministrativo, nella specialità Psicologia. Al termine del corso di formazione, sono state nominate capitano e immesse nella vita militare in cui hanno fatto, in pratica, da battistrada per tutte le future colleghe.
Le donne sono state via via immesse in tutti i ruoli dell’Arma. Nei primi mesi di quest’anno erano quasi duemila: per metà ufficiali e marescialli, e per metà brigadieri, appuntati e carabinieri. Sono, ormai, inserite in tutte le organizzazioni: centrale, territoriale, addestrativa, mobile e speciale – a eccezione dei battaglioni impiegati nell’ordine pubblico – e anche nei reparti per esigenze specifiche. Le donne sono state impiegate anche nelle missioni all’estero, in cui hanno fornito un validissimo contributo alle operazioni di pace, soprattutto nelle zone a religione islamica, dove hanno favorito i contatti con la popolazione femminile locale.
Non va dimenticato, in proposito, che proprio nel corso di una di queste missioni, quella in Iraq, una donna, il maresciallo Marilena Iacobini, riportò gravissime ferite nel sanguinoso attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003, in cui morirono 12 militari dell’Arma.

ARRESTI ECCELLENTI. La lotta alla criminalità organizzata non ha mai subito soste. Gli anni a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo hanno visto gli uomini dell’Arma protagonisti di arresti che hanno inferto colpi durissimi ad ogni tipo di mafia. A cominciare dal boss della ’ndrangheta Giuseppe Piromalli, arrestato l’11 marzo 1999 nel suo casolare trasformato in un bunker nel centro di Gioia Tauro. Cinquantaquat­tro anni, calabrese, capo dell’omonimo clan, Piromalli era inserito nell’elenco dei primi trenta latitanti d’Italia. A suo carico, tra l’altro, il duplice omicidio dei fratelli Versace e crimini legati all’estorsione e all’accaparramento degli appalti pubblici per i lavori nel porto di Gioia Tauro.
Fu arrestato invece a Torre Annunziata, il 10 giugno 2000, Ferdinando Cesarano, superboss della camorra nolana, clamorosamente evaso nel 1998 dall’aula bunker di Salerno insieme a Giuseppe Autorino. Numerosi gli omicidi a lui contestati, riferibili per la maggior parte alla guerra tra i diversi clan dei Bardellino, degli Alfieri e della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
E ancora, tra i responsabili del rapimento di Giuseppe Ferrarini – il primo sequestro di persona avvenuto a Milano nel 1975 – Giuseppe Barbaro, capo dell’omonima cosca di Platì (Reggio Calabria). Proprio nella sua città fu tratto in arresto dai militari dell’Arma, il 10 dicembre 2001, all’interno di un sofisticatissimo bunker costruito a 15 metri di profondità sotto la casa di famiglia. Non ebbe il tempo, ’U Sparitu, di fuggire nel passaggio segreto che, scoprirono i militari in seguito, gli avrebbe permesso di dileguarsi attraverso i condotti fognari.
Sempre in quegli anni, pesantissimo il colpo assestato a “Cosa Nostra” con l’arresto di Antonino Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo e tra gli uomini più vicini a Provenzano. Era la notte tra il 15 e il 16 aprile 2002, quando Giuffrè fu sorpreso in un ovile di contrada Massarizza, tra Vicari e Roccapalumba (Palermo). In un marsupio che aveva con sé, centinaia di “pizzini” contenenti note sugli appalti da distribuire, sugli imprenditori da proteggere, sulle tangenti da riscuotere nei cantieri e negli esercizi commerciali del palermitano.

La strage di Nassiriya

l 12 novembre 2003 (due anni, due mesi e un giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’origine di tutto) un’autocisterna blu irruppe nella Base Maestrale di Nassiriya, una delle due sedi dell’Operazione Antica Babilonia (la missione di pace italiana in Iraq, avviata qualche mese prima con la partecipazione di tremila uomini, 400 dei quali appartenenti all’Arma dei Carabinieri). L’autocisterna esplose all’interno della base. Crollò gran parte dell’edificio principale, mentre fu gravemente danneggiata una seconda palazzina dove aveva sede il comando. I vetri delle finestre del complesso andarono in frantumi. Nel cortile davanti alla palazzina molti mezzi militari presero fuoco. In fiamme anche il deposito delle munizioni. Il bilancio fu devastante: 28 morti, dei quali 19 italiani (e fra questi dodici carabinieri). Il traffico nella zona circostante impazzì, mentre la popolazione scendeva in strada in preda al panico.
Così, avemmo anche noi il nostro 11 settembre. «C’è un grande cratere dove prima si trovava il parcheggio, a meno di 10 metri dalla facciata devastata della palazzina a tre piani», raccontò un giornalista. Il giorno successivo il ministro della Difesa Antonio Martino, accorso sul posto, aggiunse una considerazione, dolorosa, ma niente affatto retorica: «Quel cratere è il nostro Ground Zero». A New York, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, furono vendute oltre centomila bandiere a stelle e strisce. Nel momento della sventura, i cittadini americani dimostrarono il loro orgoglio nazionale, come fanno gli uomini forti.
L’Italia si comportò nello stesso modo. Il giorno prima dei funerali, nella camera ardente, il Presidente della Repubblica abbracciò a lungo, come un fratello, il padre del maresciallo Alfonso Trincone. Gli italiani abbracciarono allo stesso modo tutti i parenti delle vittime, riconoscendosi nel gesto spontaneo di Carlo Azeglio Ciampi. Fu indimenticabile il tributo della folla. Una coda infinita davanti al Vittoriano. Che si ingrossava di ora in ora, che resisteva durante la notte, che s’infoltiva ancora al mattino successivo, il giorno dei funerali. E poi il silenzio della gente al passaggio del corteo funebre verso la basilica di San Paolo fuori le Mura, i camion con i feretri, scortati dai Corazzieri a cavallo, a passo d’uomo. Scrisse con ammirazione l’intellettuale francese André Glucksmann: «Un popolo in lacrime, ma dignitoso e raccolto, si eleva all’altezza del compito. Ha compreso che i suoi carabinieri sono stati assassinati in una terra lontana perché l’Italia ha insegnato all’Europa l’arte e la dolcezza di vivere insieme in una società “civile”, sfuggendo alla legge della sciabola e del ricatto terroristico».
Martedì 18 novembre 2003 – mentre a Roma si celebravano i solenni funerali ai Caduti – nel campo italiano di Nassiriya il trombettiere intonava il Silenzio davanti alla bandiera a mezz’asta. Un ufficiale si confidò con un giornalista: «Il silenzio è una costante degli ultimi giorni. La sera, in mensa, stavamo tutti muti, incollati alla tv, stupefatti e commossi. Quelle file davanti all’Altare della Patria, le vecchiette, i giovani in coda per rendere omaggio ai morti. Gli striscioni per le strade di Roma. Io ero branda a branda con Ficuciello, uno dei ragazzi uccisi. Lo vedo ancora che si mette il giubbotto antiproiettile prima di uscire per l’ultima volta. È tremendo. Mi fa bene vedere che… le mamme d’Italia si sono strette intorno ai morti come fossero figli loro. Questo ci ha aiutato tantissimo».
I militari rimasti laggiù hanno preso un’iniziativa che spiega nel migliore dei modi lo spirito con cui i nostri uomini affrontano le missioni di pace: una raccolta di fondi per aiutare le vittime irachene di quella autocisterna carica di tritolo.
I Carabinieri erano amati dalla popolazione. «Per loro è più facile», commentarono in molti in Italia: «Loro sono abituati a tenere i rapporti sul territorio, a stare dalla parte dei cittadini. Nelle Stazioni dei paesi il maresciallo è un amico, come il farmacista». L’allora Comandante Generale dell’Arma Guido Bellini, quando ricevette la notizia della tragedia, commentò a bassa voce; «È come se avessi perso i miei figli». Poi aggiunse, con giusta fierezza: «Non uno dei nostri ragazzi ha chiesto di rientrare. Anzi, abbiamo un elenco lungo così di richieste per partire». Il giorno stesso del funerale, i feriti non vedevano l’ora di tornare in Iraq. «Questo è il nostro lavoro», dicevano, «e continueremo a farlo».
Tra i feriti nella strage, presenti al funerale nella basilica di San Paolo fuori le Mura, c’era anche, come già accennato, il maresciallo Marilena Iacobini, l’unica donna del contingente, ricoverata nell’ospedale militare del Celio per le ferite riportate nell’attentato. «Mi sono buttata a terra, d’istinto. Mi sono salvata così», raccontava. «Mi sposerò, avrò dei figli. A uno darò il nome del maresciallo Filippo Merlino, che è morto proprio accanto a me». E un altro sopravvissuto, il maggiore Claudio Cappello, spiegò che si trovava nella sua stanza, con due marescialli e un appuntato: «Mi sono alzato dalla scrivania, sono uscito un momento, un secondo dopo ho sentito il boato: la mia stanza non c’era più. Mi sono affacciato in una crepa e ho visto i morti per terra, sentivo le urla del maresciallo Marilena Iacobini».
Alla strage di Nassiriya gli italiani reagirono con grande orgoglio, con compostezza, con dolore autentico, con pudore, e pure senza vergogna di esprimere fino in fondo i propri sentimenti.
Nei giorni immediatamente seguenti alla tragedia, si affacciarono dai balconi e dalle finestre, in tutta Italia, moltissime bandiere tricolori. Testimoniavano lo sgomento di fronte a un dramma immane, la vicinanza alle famiglie dei Caduti: in altre parole, amor di Patria.
Ad oltre dieci anni di distanza, quei sentimenti restano immutati, anche se noi italiani, espansivi e chiassosi nella vita quotidiana, nascondiamo con pudore lo spirito di comunità che però emerge nelle occasioni di un grande dolore: quando un terremoto sconvolge una regione, o quando qualcuno ci offende, o ancora quando dobbiamo piangere la morte di diciannove uomini, caduti in una terra lontana per aiutare la popolazione civile lacerata da una guerra.

 

di Max Remondino