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GLI SCAFISTI? SON POVERETTI. I TRAFFICANTI VERI SONO ALTRI E SE LA RIDONO DEL DECRETO

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Gian Domenico Caiazza

A chi abbia seriamente voglia di capire bene chi siano davvero i cosiddetti “scafisti”, suggerisco di leggere una inchiesta molto utile e documentata, pubblicata lo scorso ottobre e realizzata da Arci Porco Rosso e Alarm Phone con la collaborazione di Borderline Sicilia e Borderline Europe.
Nella comune vulgata sul fenomeno migranti, la figura dello scafista -cioè colui che guida il barcone carico di poveri sventurati e lo porta a destinazione- si sovrappone e si confonde con quella del trafficante di esseri umani. In realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe d’altronde essere chiaro o almeno facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione. Ed è altrettanto ovvio che i membri di quelle associazioni criminali che mettono in mare i barconi, stipati all’inverosimile, guidandoli nel primo tratto del percorso, si guardano bene a loro volta dal condividere con i “clienti” i rischi altissimi della traversata. I veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro, che imbarcano esseri umani ben oltre ogni ragionevole capienza e “scortano” i barconi fino a varcare i limiti delle acque territoriali del Paese di partenza (Libia, Turchia, eccetera), per poi tornarsene bellamente a casa, sui loro potenti motoscafi, abbandonando quei disperati al loro incerto destino.
Ma è chiaro che questi criminali, al pari degli armatori, cioè dei reclutatori dei migranti, noi in Italia non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo, nemmeno in fotografia. Se ne stanno comodamente a casa loro, a contare i pacchi di banconote che lucrano sulla pelle di donne e uomini disperati. Dunque, questo nostro digrignare i denti, che già si annuncia con i soliti squilli tromba (“la stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere questi titoli sui giornali all’indomani dell’ennesima tragedia, mentre a quei criminali non fa nemmeno il solletico. La documentata ricerca di cui vi dicevo ci aiuta a capire meglio, allora, chi siano gli “scafisti” che affrontano il viaggio, timonando i barconi fino a destinazione, e finendo spesso nelle mani dell’autorità giudiziaria italiana. Negli ultimi dieci anni sono stati fermati/arrestati/ indagati/ processati oltre 2500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare il cappellino da capitano, essi vengono normalmente individuati -con approssimazione facilmente intuibile- dalle dichiarazioni degli stessi migranti (e dei superstiti, quando accadono naufragi), che dicono “guidava Tizio”. Ora, nella grandissima parte dei casi “Tizio” -ammesso che fosse davvero lui a timonare- è un migrante come gli altri, che per le più varie ragioni (ed essendo capace di guidare un natante) si è dichiarato disposto ad accettare l’incarico della associazione criminale di condurre il barcone. Generalmente, è facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; o altrimenti, sono disperati disposti a rischiare la vita (ed il carcere in Italia) per guadagnare qualcosa.
Per questi scafisti, cioè quelli che finiscono nelle nostre mani e che vengono spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è già prevista una pena molto alta dall’art. 12 del Testo Unico Immigrazione. La ipotesi base, infatti, punita fino a cinque anni di reclusione, è del tutto irrealistica. Basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, con pena da un minimo di cinque ad un massimo di quindici anni, per il solo fatto di aver timonato il barcone. Se poi c’è naufragio, a maggior ragione come a Cutro dove pare certo che gli scafisti abbiano azzardato una manovra sciaguratamente rischiosa, si contesterà a costoro anche (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative.
Nel nostro Paese, ogni volta che accade un fatto grave, una sciagura che colpisce la pubblica opinione e che magari interroga anche possibili responsabilità istituzionali, si riesce ad immaginare una sola risposta: la introduzione di nuove figure di reato, o l’innalzamento delle pene previste per i reati già esistenti. È un riflesso puramente populista, da sempre patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minivita, mo e concreto risultato in termini di maggiore sicurezza sociale, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità. Qualcuno di voi pensa seriamente che il migrante che si rende disponibile a guidare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella potranno recedere dal loro intento quando verranno a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni? Ma tant’è, inutile parlarne: assisteremo alla consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, celebrata da telegiornali e testate compiacenti; e saremo tutti più tranquilli.

fonte: Il Riformista