Nel giorno in cui la liturgia cattolica impone silenzio e astinenza, a Napoli la tradizione si riconosce in un piatto preciso: la zuppa di cozze. Preparata in casa o consumata al ristorante, è il simbolo gastronomico del Giovedì Santo partenopeo, fedele a una ricetta che si tramanda da generazioni. Secondo la tradizione, fu Ferdinando I di Borbone a introdurre il piatto nel Settecento, come alternativa “di magro” ai banchetti di carne, su consiglio del confessore.
Da pietanza penitenziale, la zuppa di cozze si è trasformata in un rito collettivo, che unisce memoria familiare e identità culturale. La ricetta classica prevede polpo, cozze, sconcigli, freselle di grano, e il caratteristico ’o russ, il brodo forte a base di brodo di polpo, concentrato di pomodoro, aglio, olio e peperoncino.
“Mio padre la chiamava l’oro di Napoli”, racconta Assunta Pacifico, ristoratrice. “Andava in giro con il bancariello del brodo di polpo e diceva: ‘Ti faccio bere il brodo verace, ti faccio mangiare la zuppa di cozze verace’”. Oggi quel gesto si ripete: “Il movimento con cui giro il mestolo è lo stesso che facevo da bambina. Il piccante me l’ha insegnato lui. Ma il segreto, quello vero, non lo sa nemmeno la mia famiglia”.
Nel quartiere di Chiaia, Massimo Di Porzio, ristoratore e figura storica della ristorazione napoletana, conferma: “Il ristorante è pieno. La prepariamo secondo la ricetta tradizionale, con il brodo autentico. In casa si semplifica: si usa solo il polpo, o si alleggerisce la base. Ma il senso resta: è un piatto che appartiene alla memoria collettiva”. Al mercato di Porta Nolana, l’affluenza in questi giorni è doppia rispetto alla media. “Il Giovedì Santo vendo più che a Natale. Il polpo e le cozze finiscono prima di mezzogiorno – dice Antonio, pescivendolo – chi viene qui lo sa: se arrivi tardi, resti senza”. (AGI)
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