Type to search

EVVIVA! CALENDA SE NE È ANDATO (intervista a Luigi Zanda)

Share

«Per vincere il centrosinistra deve riuscire a parlare a quel quasi 50% di persone che non vanno più a votare. Molti di quelli sono ex elettori del Pd in attesa di un segnale»
Umberto De Giovannangeli

«Non esiste l’Agenda Draghi, caso mai esistono un metodo e uno stile Draghi. Ma che ne sa Calenda di questa “Agenda”? Per un anno e mezzo c’era il Pd in Parlamento a sostenere Draghi. Calenda era occupato a chiacchierare e a costruire l’ennesimo partito personale»
Il senatore Luigi Zanda: «Senza Calenda il Pd avrà più appeal politico. Per vincere il centrosinistra deve riuscire a parlare a quel quasi 50% di persone che non vanno più a votare. Molti di quelli sono ex elettori dem in attesa di un segnale»
La parola a Luigi Zanda, senatore Dem, presidente del Gruppo Pd al Senato nella scorsa legislatura.
Centrosinistra. Da campo aperto a campo minato. Calenda ha rotto e a Mezz’ora in più ha argomentato: «C’erano due pulsioni, una a fare una proposta di governo, una a fare un Cln e alla fine i Enrico è rimasto al Cln». Lei come la vede?
Le vicende delle ultime settimane dimostrano quanto sia importante in politica il fattore umano. Aggiungo che senza la spericolatezza e l’imprevedibilità di Calenda, il Partito democratico sarà più attrattivo.
Perché?
Vede, spesso le coalizioni valgono molto meno della somma dei partiti che le compongono. Dipende dallo spirito comune che riescono ad esprimere. E Calenda è incapace di stare insieme agli altri. Anche lui, come Renzi, è prigioniero del suo “io”. E tutti i suoi ragionamenti politici tornano sempre a se stesso: io, io, io. Stiamo ai fatti: si è fatto eleggere dal Pd e subito dopo lo ha combattuto. E adesso lascia Emma Bonino per mettersi con Renzi. È tutto dire. Il Pd senza Calenda resta quello che era prima. Le sfide che il Partito democratico ha davanti a sé per il 25 settembre sono ben altre…
Quali?
Battere il trio Meloni-Salvini-Berlusconi, e andare in Parlamento con la forza del primo partito.
Divisi da Calenda ma in nome della stessa “Agenda”: l’”Agenda Draghi”.
A parte che l’Agenda Draghi non esiste, caso mai esistono un metodo e uno stile Draghi. Ma che ne sa Calenda di questa “Agenda”? Per un anno e mezzo c’era il Pd in Parlamento a sostenere Draghi. Calenda, in quell’anno e mezzo, era occupato a chiacchierare e a costruire l’ennesimo partito personale. Perché Azione è proprio questo: un suo partito personale.
Il leader di Azione sostiene che il Pd non ha il coraggio di dirsi di sinistra e mira sempre a prendersi un pezzo di altri partiti.
Il Pd non deve dimostrare nulla. Ha sulle spalle una lunghissima storia che parte dalla resistenza e dal dopoguerra. Ed è nato sulla memoria di grandi culture che hanno fatto l’Italia. Culture di centro che hanno sempre guardato a sinistra e culture di sinistra che hanno sempre guardato al centro. È Calenda che deve mostrare le fondamenta politiche e culturali del suo neo-partito, non il Pd. Tutto questo senza considerare che siamo nel 2022 e che le elezioni si celebreranno con la peggiore legge elettorale che l’Italia abbia mai avuto dal dopoguerra.
Ma questo non è responsabilità del Parlamento sciolto?
Ha ragione. Se questa pessima legge elettorale non è stata cambiata è responsabilità del Parlamento, di tutto il Parlamento.
Quanto è forte il rischio che se dovesse ottenere la forza parlamentare necessaria, il centrodestra possa mettere mano pesantemente alla Costituzione?
L’articolo 138, troppo spesso male utilizzato, è stato scritto per modifiche puntuali alla Costituzione. Modificare la forma della Repubblica, trasformandola da parlamentare in presidenziale, non è possibile utilizzando l’articolo 138. Servirebbe, almeno, un’Assemblea costituente. Se qualcuno pensasse di trasformare, utilizzando la propria maggioranza, l’assetto costituzionale della Repubblica, compirebbe un atto illegittimo. Da un punto di vista sostanziale, poi, non è nemmeno ipotizzabile parlare di Repubblica presidenziale senza porre in atto, contestualmente, ripeto contestualmente, rigorosi e pesanti contrappesi.
Ma quello da lei evocato è lo “spirito Cln” tanto vituperato da Calenda?
Lasciamo in pace il Cln che non merita essere evocato da Calenda per attaccare il Pd. Quel che è sicuro è che dovremmo avere tutti capito che per toccare la Costituzione servono maggioranze quanto più larghe possibile.
A questo punto che si fa? Si torna a guardare a Conte e ai 5Stelle per allargare il campo?
5 Stelle penso proprio che non se ne parli più. Affidati allo zig zagare politico di Conte, dal suo primo governo con Salvini in poi, sono destinati a un declino solitario. Io credo che il risultato delle prossime elezioni sia ancora molto aperto. Siamo abituati a sondaggi che spessissimo sbagliano le previsioni elettorali. E non ritengo che un Calenda o i 5Stelle, di qua o di là, possano determinare la vittoria o la sconfitta. L’elemento elettoralmente decisivo sarà in che modo nelle ultime settimane di campagna elettorale, i partiti, e soprattutto il Pd riuscirà a parlare a quel quasi 50% di elettori che non va più a votare. Questo è il mondo con il quale il centrosinistra deve parlare. Anche perché in gran parte è composto di suoi ex elettori, che aspettano dal Pd segni che li convincano a tornare alle urne. Per battere il centrodestra il Pd deve saper parlare ai non votanti. L’altro elemento importante è lo sguardo con cui gli italiani guarderanno ai rischi della nostra destra. Una destra che da sempre è anti-europea e nazionalista. Non sono convinzioni che si modificano facilmente. Poi continuano ad annunciare misure che se realizzate finirebbero per produrre un aumento del debito pubblico che né la Bce né i mercati tollererebbero. E c’è un’altra questione politiDei ca che il trio di centrodestra prova a nascondere sotto il tappeto…
Vale a dire?
Meloni, Salvini, Berlusconi, sostengono di non avere nulla a che fare con quella destra nera che l’Italia ha conosciuto per molti decenni. Ed io voglio far loro credito. Ma una parte consistente del loro elettorato viene da lì. E saranno costretti a tenerne conto.
Queste elezioni avvengono mentre nel cuore dell’Europa si continua a combattere. Eppure la guerra sembra essere scomparsa dall’agenda politica italiana.
La guerra è il mio incubo personale. Non c’è solo l’Ucraina nel cuore dell’Europa e a un’ora e mezza di volo da Roma. Ci sono il Kosovo, la Crimea, la Libia, la Siria, l’Africa subsahariana. Nell’oceano Pacifico c’è Taiwan, c’è la corsa agli armamenti della Cina, c’è la Corea del Nord, c’è Hong Kong. La vicenda di Taiwan ci conferma che il rischio maggiore di una guerra mondiale è nell’Indo-Pacifico, mentre i missili tra Israele e Gaza ci dicono che il Medio Oriente resta un focolaio mortale di tensioni. Sarebbe da incoscienti chiudere gli occhi davanti a una situazione così rischiosa. Il mondo deve scegliere: da un lato c’è il miraggio di un nuovo ordine mondiale, siglato prioritariamente da Stati Uniti e Cina e poi da tutte le grandi potenze, una sorta di Helsinki 2. Dall’altro lato, purtroppo, c’è solo un’altra guerra mondiale. Il tema di come evitare la guerra dovrebbe essere il primo argomento della campagna elettorale italiana.
Un mondo più armato è un mondo meno sicuro, ripete Papa Francesco. Ma nella politica sono in pochi a prestargli ascolto.
Per me il Papa non si discute. Ma come facciamo a parlare di disarmo quando non si riesce nemmeno a costringere gli Stati a distruggere le proprie armi nucleari? Ed anzi, quando vi sono Stati che vogliono dotarsi di armi nucleari e di missili ipersonici con i quali siano in grado di colpire ovunque nel mondo. Solo con una nuova Helsinki che contenga un grande patto mondiale per il disarmo, il mondo potrà conoscere la pace.
Ma questo auspicio non contrasta con la scelta del governo Draghi, sostenuto da una larghissima maggioranza parlamentare, di fornire armi all’Ucraina?
Questa domanda è molto strana. È come se si chiedesse a un povero aggredito di lasciarsi ammazzare, violentare, rapinare da un aggressore molto più forte di lui, senza difendersi e senza chiedere aiuto.
Lei ha annunciato di non volersi ricandidare. Lo stesso hanno fatto Roberta Pinotti e Pier Luigi Bersani, ma molti della “vecchia guardia” sgomitano ancora. È così difficile fare un passo di lato se non indietro?
È una domanda delicata, perché ognuno di noi ha il suo carattere, la sua cultura, le sue ambizioni. E poi perché la politica è una passione e spesso per tanti è anche una scelta di vita. Posso parlare solo per me. E per me la politica significa soprattutto impegno pubblico. Quindi continuerò a far politica anche fuori dal Parlamento.

Fonte: Il Riformista