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Etiopia. Perché l’Italia deve ricordare il massacro di Debre Libanos

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Di Antonello Carvigiani

Caro direttore, sono passati 85 anni dalla strage di Debre Libanos, dove – tra il 21 e il 27 maggio del 1937 – monaci, preti e pellegrini ortodossi, radunati nel monastero etiopico per la festa dell’Arcangelo Mikael e di San Tekle Haymanot, vennero trucidati dalle truppe italiane, comandate dal generale Maletti, dietro un preciso ordine del viceré, Rodolfo Graziani.

Come abbiamo spesso raccontato in questi anni – su Tv2000 e su Avvenire – le ricerche curate da Ian Campbell hanno rivelato che il numero delle vittime di questa strage sarebbe compreso tra le 1.800 e le 2.200, mentre il rapporto ufficiale stilato da Maletti riferiva di 449 morti, ai quali si devono aggiungere altri 3 religiosi arrestati e uccisi in carcere, il 29 di maggio.

Il massacro di Debre Libanos fu l’ultima, tragica conseguenza di un attentato contro Graziani. Nel febbraio del 1937, due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciarono alcune bombe contro il viceré, nel cortile del palazzo del governo, uccidendo sette persone. Graziani rimase ferito. Fu scatenata una feroce repressione, durante la quale, per tre giorni, Addis Abeba venne messa a ferro e fuoco. Migliaia furono le vittime. I due attentatori fuggirono verso il monastero di Debre Libanos. Graziani si convinse che i due giovani si nascondessero nella cittadella conventuale, sorgente sia della spiritualità religiosa che dell’identità nazionale etiopica. Fu il pretesto per regolare definitivamente i conti con la Chiesa ortodossa, ritenuta ispiratrice e fiancheggiatrice della resistenza anti-italiana.

Il massacro non fu, però, l’ultima atrocità. In questo anniversario, credo che sia giusto raccontare anche la sorte che toccò ai pochi sopravvissuti e, in questo modo, accendere i riflettori pure sul brutale sistema repressivo organizzato nelle colonie e fondato su dei veri e propri lager. Il 27 maggio, al termine delle esecuzioni, Graziani telegrafò al ministro delle colonie, Lessona: «Sono rimasti così in vita solo trenta ragazzi seminaristi che sono stati rinviati alle loro case di origine nei vari paesi dello Scioa». In realtà, non fu così.

Ian Campbell nelle sue ricerche riuscì a rintracciare uno di quei ragazzi. Tebebe Kassa raccontò che nel mese di maggio del 1937, allora tredicenne, venne trasferito, insieme ad altri 29 studenti del monastero di Debre Libanos, nel campo di detenzione di Chagal, poi, in quello di Debre Berhan e, quindi, a Danane.

Il campo di concentramento di Danane era un inferno. Fu costruito alla fine del 1935 a circa 40 chilometri da Mogadiscio, in Somalia, per volontà di Graziani. Secondo le sue intenzioni, avrebbero dovuto esservi confinati gli etiopi catturati nella guerra di Abissinia, iniziata da poche settimane. Il campo si popolò soprattutto dalla metà del 1936. In poco più di un anno, vi furono deportate circa 1.800 persone: notabili, funzionari, ufficiali, religiosi del regime negussita. Le condizioni di vita a Danane – come nel campo di concentramento edificato dall’Italia liberale alla fine dell’Ottocento sull’isola eritrea di Nocra e ampiamente usato dal fascismo – erano disumane. Secondo alcune stime, oltre il 50% dei reclusi morì a causa della scarsa e pessima alimentazione, dell’acqua salmastra dei pozzi, del clima torrido, delle malattie come la malaria o l’enterocolite non curate, dell’igiene inesistente, delle violenze e torture, delle esecuzioni sommarie.

Un campo di sterminio, per usare la definizione di alcuni storici. Un recluso, il giudice etiopico Michael Blatta Bekele Hapte, alla fine della guerra, dichiarò alla commissione Onu sui crimini di guerra: «Il cibo che gli italiani ci davano era veramente nocivo per la nostra salute. Consisteva principalmente in gallette rotte infestate da vermi».

Secondo Micael Tesemma, un alto funzionario del ministero degli Esteri etiopico, nel periodo in cui vi fu recluso, tra il 1936 e il 1941, dei 6.500 prigionieri presenti nel campo, morirono 3.171. Cifre difficili da confermare ma che il campo fosse «una bolgia dantesca» – ha scritto Angelo del Boca – lo dimostra il Diario del comandante di Danane, Eugenio Mazzucchetti, che pure si spese moltissimo per migliorarlo, contro le stesse autorità del governo coloniale e la sua burocrazia «corrotta e inefficiente». È sorprendente, infatti, leggere la relazione dell’ispezione del comandante dei carabinieri in Etiopia, Azolino Hazon, nella quale non si rileva nulla di anormale. È in questa Caienna italiana che vennero reclusi i giovani seminaristi, insieme ad altri prigionieri deportati perché, in qualche modo, vicini al monastero di Debre Libanos. A differenza di quel che sostenne Graziani nella comunicazione al governo italiano, dei 30 giovanissimi studenti solo uno – Tebebe, un paio d’anni dopo – riuscì a tornare a casa vivo.

Fonte: Avvenire