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Difesa del suolo e del clima: che cosa ci insegna Ischia

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di Massimo Veltri

Dopo le Marche, Ischia. Dentro pochi mesi il rosario dei disastri idrogeologici nel nostro Paese si è ‘arricchito’ di due grani che aggiungono danni e vittime, scempio del territorio e allarme inascoltato ripetuto da decenni, senza però che a invettive e denunce conseguano atti responsabili di governo del suolo, delle acque, del territorio. Perlopiù, i commenti e le dichiarazioni, irresponsabili quanto superficiali,  fanno riferimento ai cambiamenti climatici che producono eventi impazziti e non prevedibili, a fronte dei quali l’uomo sarebbe impotente, oggetto passivo in balìa degli eventi, all’abusivismo edilizio quale causa unica dei danni se non addirittura degli eventi, al ristoro dei danni, alla commozione e alla solidarietà. E’ possibile invece una lettura di quanto sta accadendo con un occhio più vigile, attento alla storia che in materia ha vissuto l’Italia, tanto sul versante ingegneristico-pianificatorio quanto istituzionale-normativo.

In dieci anni, da maggio 2013 a maggio 2022, l’Italia ha speso più di tredici miliardi di euro per far fronte ai danni provocati da eventi idrogeologici. Investendo molto meno – alcune stime riferiscono del settantacinque per cento – in interventi di prevenzione, compresi quelli di delocalizzazione di costruzioni abusive e\o edificate in aree a rischio idrogeologico, azioni di previsione per come le conoscenze acquisite consentono, pianificando in termini razionali l’uso e il consumo di suolo attraverso accorti strumenti di piano, a iniziare da quelli di di bacino.

Lo strumento ‘Piano di Bacino’ non è una novità: fu introdotto, normativamente, dalla legge 183 del 1989, Piano decennale per la Difesa del Suolo, che quando stava dare i suoi frutti venne soppiantata da un lotto di Direttive Europee, a partire dal 2000, che se pure per molti aspetti accolsero e fecero propri i principi ispiratori della nostra norma, di fatto introdussero istituti e linee da seguire oltre che strumenti di governo del sistema acqua-suolo che non rinvennero nell’insieme delle nostre articolazioni amministrative e scientifiche accoglienza e applicazione sufficienti. In forza anche, bisogna dire, della tensione via via scemata sulla materia, che nei due decenni precedenti aveva animato gran parte delle intelligenze e dei saperi, dell’impegno di buona parte delle classi dirigenti accademiche e politico-amministrative. Un calo di tensione e di attenzione cui corrispondevano l’acquisizione dell’idea di piano come desueta e non più praticabile, il trasferimento dei saperi in posizioni di stand-by, riporre l’intero comparto acqua-suolo-gestione del territorio  in una terra di nessuno, dove è estremamente difficoltoso individuare centri di competenze, spendere risorse disponibili, seguire iter procedurali virtuosi o forse solo sufficienti.

Se i bacini idrografici e più in generali fasce estesissime del paese è come se vivessero, quindi, una lunga stagione di laissez-faire, parimenti le giaculatorie sulla ineluttabilità dei fatti, la scarsezza dei fondi, le colpe degli ‘altri’ è inevitabile che attraversino l’opinione pubblica come un vangelo inoppugnabile.

In Italia siamo senza il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici: esiste solo, dal 2018, una bozza, presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Si sono succeduti da allora tre governi e due ministri ma il piano è ad oggi ancora nel cassetto. Una lettura se pur non adeguatamente approfondita del documento lascia trasparire uno sforzo, un tentativo, per molti aspetti nuovo, delle istituzioni, in grado di aggiornare la matrice di fondo degli strumenti di piano alla luce delle condizioni climatiche negli anni sempre più evidenti, del recepire gran parte dei risultati delle scienze idrologico-idrauliche conseguiti nei centri di ricerca, nel coinvolgimento delle popolazioni a coesistere con il rischio: c’è da lavorarci ma costituisce una buona base di partenza.

C’è da stimolare una forte pressione affinché il governo lo estragga dai recessi in cui giace e promuova una discussione su di esso coinvolgendo la platea degli attori interessati, procedendo quindi verso una sua approvazione.

Nel documento compaiono le azioni di adattamento ai cambiamenti climatici e ambientali che debbono essere integrate per mitigare l’impatto dei fenomeni di dissesto geologico, idrologico e idraulico. Sono classificate in: azioni finalizzate al miglioramento delle conoscenze scientifiche e del trasferimento tecnologico in tutti i settori coinvolti nella difesa dai rischi naturali; azioni finalizzate al miglioramento del monitoraggio territoriale; azioni finalizzate al miglioramento dei sistemi di previsione; azioni finalizzate al miglioramento del supporto tecnico, della gestione delle emergenze e della preparazione e addestramento della popolazione; azioni finalizzate all’implementazione, il miglioramento e il recupero di misure di difesa strutturali attraverso la progettazione e la realizzazione delle singole opere.

E’ utile sottolineare che ‘un ampio spazio è assegnato tanto all’analisi quanto alle proposte per la comprensione della dinamica degli eventi estremi e la previsione del loro impatto, facendo riferimento più volte alle tecniche, agli strumenti, ai modelli introdotti dalle comunità scientifiche’. 

A Roma, presso il Ministero dei Lavori Pubblici, ai primi di luglio di quest’anno, in conclusione di un Convegno che ha ricordato il lavoro effettuato da Giulio de Marchi, vero e proprio padre  della Difesa del Suolo, e non solo nel nostro Paese, alla presenza di personalità politiche, accademiche, ministeriali, del mondo delle imprese e delle professioni, si è convenuto che ” … di interventi riguardanti schemi idrici non si parla da decenni, estremi idrologici, alluvioni e siccità, continuano a essere un refrain costante, e c’è chi ha accennato alla necessità di un G8 e G20 sui temi idrico-idrologici: per certo non si può non ravvisare l’importanza e l’urgenza di un focus che metta in evidenza i temi di oggi, non soltanto in termini commissariali, non esclusivamente sugli aspetti inerenti le disponibilità finanziarie ma per inserirli in posizione alta dell’agenda del che fare. Forse qualcuno ha insistito troppo su rischio zero, qualcun altro sulla deregulation, è il momento che si riparta”.

Ecco, forse è il momento in cui il governo centrale assuma le proprie responsabilità.

Fonte: libertaeguale