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(Dal The Guardian): Il lungo cam­mino di ritorno per tro­vare la mia casa schiac­ciata, sepolta

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Di Malak Un Tantesh Beit Lahia (The Guardian)

Quando è arri­vato il ces­sate il fuoco c’è stato un momento di sol­lievo dal fatto che era­vamo scam­pati alla morte, anche se por­tiamo ancora la tri­stezza e il dolore di tutto ciò che abbiamo perso in quei 15 mesi.
I pale­sti­nesi sanno che ci sono ancora altre bat­ta­glie davanti. Devono con­ti­nuare a com­bat­tere, in una guerra di sof­fe­renza quo­ti­diana-la lotta per l’acqua, per una pagnotta di pane – e una guerra con­tro i ricordi che por­tano dolore al cuore e fol­lia alla mente.
Eppure, mi sono sve­gliato pieno di ener­gia ed ecci­ta­zione dome­nica, il giorno in cui ci era stato detto che avremmo potuto ini­ziare a tor­nare al nord. Sapevo che il viag­gio sarebbe stato este­nuante, per­cor­rendo lun­ghe distanze su strade inter­rotte e affol­late di altri sfol­lati, ma ero ansioso di tor­nare alla mia amata casa. Ho seguito le noti­zie minuto per minuto, aspet­tando l’annun­cio che la tra­ver­sata si sarebbe aperta. Invece, abbiamo rice­vuto la noti­zia che non sarebbe suc­cesso.
Sono andato a letto quel giorno pen­sando a tutte le per­sone che erano andate al chec­k­point sabato sera pre­sto in modo che potes­sero essere i primi a tor­nare. Molti ave­vano ven­duto le loro tende per per­met­tersi il viag­gio di ritorno o addi­rit­tura bru­ciato le loro tende fuori dall’ecci­ta­zione che sta­vano final­mente lasciando die­tro di sé la vita in quei campi. Così non ebbero riparo quella notte e dor­mi­rono nel freddo gelido, aspet­tando con ansia il mat­tino suc­ces­sivo, spe­rando che i loro sogni non sareb­bero stati distrutti di nuovo.
Quando lunedì è arri­vato l’annun­cio che la strada era aperta, ho sen­tito che avrei potuto volare via con gioia. Ci siamo vestiti, abbiamo fatto le vali­gie e siamo andati il più vicino pos­si­bile al chec­k­point.
Men­tre ci avvi­ci­na­vamo a piedi, siamo stati attratti da una folla così grande che sem­brava un fiume infi­nito di esseri umani. Se si guar­dava indie­tro o avanti, si poteva vedere solo lo stesso tor­rente di per­sone arran­care a nord.
Tutti erano molto stan­chi e appe­san­titi dai pochi beni che ave­vano sal­vato dalla guerra, ma la pas­sione per il ritorno li spinse avanti. Il nostro desi­de­rio di vedere le nostre case, anche se fos­sero state distrutte, era più forte della nostra stan­chezza e man­te­neva le nostre gambe stan­che in movi­mento. Le nuvole di pol­vere che le folle pas­sa­vano copri­vano i nostri volti, siste­man­dosi su ogni ciocca di capelli, tra­sfor­mando le mie ciglia da nere a gri­gie. Sem­brava quasi comico, ma intorno a me c’erano così tante scene stra­zianti.
Gli uomini con bam­bini sulle spalle hanno lot­tato per tra­spor­tare o tra­sci­nare oggetti pesanti. Anziani in sedia a rotelle sob­bal­za­rono dolo­ro­sa­mente per chi­lo­me­tri sui sol­chi di una strada distrutta. Altri che ave­vano biso­gno di soste­gno, ma non ave­vano più crol­lato in mezzo alla strada.
Ho visto un uomo pian­gere sul corpo del suo anziano padre, che aveva insi­stito per cer­care di tor­nare nono­stante le cat­tive con­di­zioni di salute. Il viag­gio lo aveva ucciso. Altrove, i bam­bini sepa­rati dalle fami­glie nella cotta pian­ge­vano per i loro geni­tori, men­tre un padre cer­cava fre­ne­ti­ca­mente suo figlio.
Men­tre ci avvi­ci­na­vamo a Gaza City, Rashid Street era così piena di per­sone che cer­ca­vano di tor­nare che la folla sem­brava averla riem­pita per poi fer­marsi. Così ci siamo allon­ta­nati verso la spiag­gia dove anda­vamo a rilas­sarci, cam­mi­nando sulla sab­bia solida vicino all’acqua con cen­ti­naia di altre per­sone.
La spiag­gia era pulita e bella, così abbiamo preso pause ogni tanto. Nel tardo pome­rig­gio abbiamo man­giato cetrioli, pane al for­mag­gio e avo­cado che nostra madre aveva con­fe­zio­nato, guar­dando il mare. La nostra acqua era finita prima.
Dopo aver finito il pasto, abbiamo con­ti­nuato il nostro viag­gio, rag­giun­gendo final­mente Gaza City, dove grandi folle di per­sone si erano radu­nate per aspet­tare i loro cari.
Il sole stava tra­mon­tando e la sua luce riflessa rese aran­cioni gli edi­fici tri­sti e rovi­nati. Era stra­na­mente bello, tra­sfor­mando Gaza in un’opera d’arte che solo le per­sone che vive­vano lì pote­vano apprez­zare.
Spe­ra­vamo di tro­vare un’auto per gui­darci nel tratto finale del viag­gio, ma i pochi per le strade erano già pieni, o i con­du­centi sta­vano aspet­tando le loro fami­glie. Così abbiamo con­ti­nuato a cam­mi­nare attra­verso il quar­tiere Rimal di Gaza, che era un’enclave di fan­ta­sia per i ric­chi della città. Ora era una città fan­ta­sma, con un eser­cito di sfol­lati grigi di pol­vere che vaga­vano per le sue strade in un silen­zio esau­sto.
Abbiamo con­ti­nuato a cer­care una mac­china, ma era una ricerca senza spe­ranza. L’unico
uno che si è fer­mato ha chie­sto 30 volte la tariffa abi­tuale, più di quanto pote­vamo per­met­terci. Così abbiamo con­ti­nuato a cam­mi­nare.
Abbiamo rag­giunto la nostra città natale, Beit Lahia, nell’estremo nord, quando la notte era già calata. I miei piedi e le mie spalle mi dole­vano, e anche nell’oscu­rità vidi scorci della distru­zione tutt’intorno. Nono­stante tutto ero incre­di­bil­mente felice.
Ci siamo diretti diret­ta­mente a casa di mio nonno materno, che era ancora in piedi, anche se era dan­neg­giata e rico­perta di pol­vere e graf­fiti da sol­dati israe­liani. C’erano sca­tole vuote di muni­zioni e pro­iet­tili ovun­que. Osser­viamo i nostri passi; le armi ine­splose sono una grande pre­oc­cu­pa­zione per tutti qui.
Quando ci siamo sve­gliati il giorno dopo siamo andati a fare una pas­seg­giata, e anche se ho coperto la guerra per mesi, la scala della distru­zione era schiac­ciante.
Le per­sone sta­vano cer­cando tra le mace­rie delle loro case, alla ricerca di vestiti, foto­gra­fie o altri fram­menti di ricordi delle loro vite prima della guerra, stru­menti e uten­sili che potreb­bero essere ancora uti­liz­za­bili.
Ho incon­trato amici e vicini che non vedevo dall’ini­zio della guerra. Tutto intorno c’erano fami­glie che si abbrac­cia­vano, gli abbracci e i baci delle attese riu­nioni.
Poi siamo andati a tro­vare la nostra casa per la prima volta dall’ini­zio della guerra. Sono cre­sciuto in que­sta zona, ma era stata così deva­stata, edi­fici e strade e giar­dini bom­bar­dati e demo­liti, che non riu­sci­vamo più a tro­vare la strada per la casa. Sta­vamo vagando, smar­riti e con­fusi, quando un vicino apparve e ci guidò.
Le uni­che cose ancora in piedi erano i tron­chi di un albero di noce e alcuni alberi di ulivo che erano nel nostro cor­tile. Veden­doli lì, cir­con­dati solo da mace­rie, mi sen­tivo come se fossi stato pugna­lato nel mio cuore.
La nostra casa era un edi­fi­cio di tre piani, e i livelli erano crol­lati uno sopra l’altro come strati in una torta. Ho cam­mi­nato intorno e sopra le rovine per vedere se c’era un modo per recu­pe­rare qual­cosa dalla nostra vita. Era peri­co­loso, ma i nostri ricordi lo meri­tano.
Non riu­scivo a tro­vare nem­meno il buco più pic­colo. Nulla era soprav­vis­suto. I miei ricordi, i ricordi della mia fami­glia e tutto ciò che pos­se­de­vamo sono stati distrutti e sepolti.