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Come usiamo le opportunità del digitale in Italia?

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Statistiche alla mano, l’Italia ha uno sviluppo digital nella media. Almeno, finché non si tratta di usare il digitale per cose utili

Sulla carta, nelle statistiche, l’Italia è un Paese digitale nella norma, nelle medie mondiali. Sulla carta, siamo oltre la media mondiale nell’adozione di Internet (86,5% della popolazione, il 94% con smartphone; quasi la metà rifiuta i cookie), nell’uso dei social media (73%), di assistenti vocali digitali, di traduttori online, di video come risorsa per l’apprendimento, nel consumo di video on demand (Netflix, Disney, Amazon Plus, YouTube et cetera), nell’uso del digitale per la casa intelligente (smart home).

Sulla carta – carta canta – arrancano però molti fanalini di coda: siamo sotto la media mondiale (e di solito a molte lunghezze dai primi nelle classifiche) per il tempo quotidiano nel web e sui social media, nell’uso dei social media come strumento di lavoro, nei pagamenti con cellulare, nel consumo di podcast, nel possesso di criptovalute (fortunatamente), nell’uso delle Vpn, nelle videochiamate, negli acquisti online di alimentari, nella velocità di connessione mobile e fissa (punto dolentissimo, con tutta l’Europa, il Nord America e tanta Asia e Medio Oriente che ci doppiano con disinvoltura). Curiosità: siamo fra i minori utilizzatori della Rete per verificare i sintomi della nostra salute.

Recuperiamo come video giocatori – su qualunque dispositivo – collocandoci nella media mondiale insieme a Usa e Spagna. Ma con soli 47 minuti al giorno alla console siamo lontani dal resto del mondo e ben distanti dal consumo bulimico della Thailandia e dell’Arabia Saudita di un’ora e tre quarti.
Sulla carta, il Paese è diviso fra digital poor e digital rich: i primi sono la maggioranza (80,2%) e hanno appena superato il digital divide (sanno usare una app, per capirci, ma finisce lì o quasi); i secondi attingono pienamente a tutti i media possibili e immaginabili ma già dichiarano in maggioranza (52,8%) che si sentono stanchi dell’uso dei dispositivi digitali e vorrebbero «staccare la spina». Così dicono.

Sulla carta (legge n. 92 del 20 agosto 2019) i discenti della scuola d’ogni ordine e grado dovrebbero essere educati alla «cittadinanza digitale». L’articolato prevede che si acquisiscano le abilità di «analizzare, confrontare e valutare criticamente la credibilità e l’affidabilità delle fonti di dati, informazioni e contenuti digitali», partecipare al dibattito pubblico, ricercare opportunità di crescita personale e di cittadinanza partecipativa, creare e gestire l’identità digitale et cetera.

Insomma, una piccola legge per un gigantesco balzo della nazione nella cittadinanza consapevole, informata, partecipata, competente, perciò «digitale» (sic). Digitale in classe, a casa, per strada. E nella didattica? Nella tanto discussa didattica a distanza? A parole, quest’ultima – che porta la scuola a centinaia di milioni di studenti nel mondo – è sostenuta da tre quarti degli italiani ma la stragrande maggioranza degli insegnanti la vede come fumo negli occhi, con l’incremento della loro fobia verso il mondo digitale che cresce con l’età. In attesa – non manca molto – che i docenti siano dei nativi digitali, non rimane loro che farsi alfabetizzare dagli stessi discenti, nel bene e nel male molto più abili e sicuramente simbiotici con l’innovazione digitale.

A parole, i loro genitori italiani dichiarano che l’età media “giusta” per avere accesso a Internet senza la presenza di un adulto è 15 anni, ma il 61,7% di loro lascia via libera prima dei 13 anni e perfino a 4 anni d’età. Il divario fra le acclamate buone intenzioni e i fatti è straordinariamente umano. E assai italiano.

Di Edoardo Fleischne

Fonte: La Ragione