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Come mai non sfruttiamo i vulcani per produrre energia geotermica?

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I vulcani contengono al loro interno grandi quantità di calore, ma solitamente non vengono sfruttati dal punto di vista geotermico. Per quale motivo?

 

A cura di Luca Guglielmetti fonte@geopop.it

 

Una domanda che spesso si sente in merito alla geotermia è “perché non sfruttiamo il calore proveniente dai vulcani per generare energia?”. In effetti i vulcani, vista l’enorme quantità di calore presente al loro interno, potrebbero rappresentare – in teoria – degli obiettivi estremamente interessanti per lo sviluppo della geotermia… E allora perché questa tecnica non viene già applicata in tutto il mondo?

In questo articolo vedremo quali sono le problematiche esistenti e quali sono alcuni tra i casi più emblematici in questo campo.

 

I limiti della geotermia sui vulcani

Innanzitutto dobbiamo tenere presente che per sviluppare progetti geotermici in zone vulcaniche si deve far fronte a limitazioni di carattere amministrativo e difficoltà nell’ottenimento delle autorizzazioni, visto che la maggior parte delle aree vulcaniche (incluse quelle italiane) ricade in zone protette appartenenti a parchi regionali o nazionali.

 

 

Ma anche nel caso in cui si riuscisse a ottenere le autorizzazioni necessarie, andrebbero superati problemi di carattere tecnico come, ad esempio, il reperimento di materiali adatti alla perforazione per operare a temperature estremamente elevate oppure il trattamento dei fluidi per abbattere salinità e gas –  sia quelli potenzialmente corrosivi per le infrastrutture di pozzo e di produzione, che quelli nocivi per la salute (idrogeno solforato, mercurio).

Inoltre si dovrebbe affrontare, attraverso opportune analisi di rischio, il pericolo legato alla sismicità.

 

 

Energia geotermica: cos’è, vantaggi e utilizzi in Italia e nel mondo

Anche tralasciando tutti questi aspetti, i principali limiti legati alla geotermia sui vulcani sono quelli riguardanti il rischio di eruzioni vulcaniche e la presenza di condizioni definite “supercritiche”. Andiamo a vedere nel dettaglio di cosa si tratta.

 

Il rischio di eruzioni vulcaniche

Se si volesse realizzare un impianto geotermico a ridosso di un vulcano, una delle prime preoccupazioni sarebbe quella di una possibile eruzione vulcanica. A tal proposito, citiamo come esempio la centrale di Puna, nelle Hawaii, ai piedi del vulcano Kilauea. Nel 2008, a seguito di un’eruzione durata mesi, la struttura si ritrovò circondata dalla lava. Per fortuna i danni all’impianto furono relativamente contenuti: tutti i pozzi in produzione vennero chiusi per evitare incidenti legati alla perturbazione dell’integrità dei pozzi e la possibile fuoriuscita di gas, nocivi per la popolazione. La lava raggiunse infatti due pozzi anche se, per fortuna, il resto delle infrastrutture rimase intatto, permettendo la ripresa della produzione qualche mese dopo l’eruzione.

 

 

Centrale di Puna prima e dopo l’eruzione del Kilauea.

Il fatto che in questo caso non ci siano stati particolari danni non significa che costruire accanto a un vulcano sia sicuro. Infatti, oltre alla possibilità di perdere completamente l’impianto nel caso in cui venisse travolto dalla lava, ci sarebbe il rischio di fuoriuscite rapide e concentrate di gas nocivi dai pozzi geotermici – cosa che, ribadiamo, fortunatamente non è accaduta nel caso della centrale di Puna.

 

Condizioni supercritiche

I fluidi geotermici supercritici rappresentano risorse geotermiche a pressione e temperatura estremamente elevate, superiori ai 374˚C e ai 221 bar. In queste condizioni il fluido acquisisce proprietà intermedie tra quelle di un gas e di un liquido che lo rendono estremamente attrattivo da un punto di vista termodinamico e di produzione di energia, potendo generare fino a 10 volte più elettricità delle risorse attualmente impiegate, a pari volume estratto.

 

Tali fluidi si trovano spesso alle radici dei sistemi idrotermali ospitati dai vulcani e attualmente sono stati perforati più di 25 pozzi in campi geotermici di questo tipo, come ad esempio negli USA, in Giappone, in Islanda e persino in Italia.

 

 

Per quale motivo allora si tratta di un tipo di impianto ancora poco diffuso?

Una tra le prime motivazioni è legata alla natura dei fluidi, estremamente corrosivi e abrasivi, capaci quindi di danneggiare la strumentazione. Inoltre, a queste condizioni di pressione e temperatura si attivano processi tali per cui la roccia del serbatoio tende a diventare “plastica”, cioè tende a deformarsi, non permettendo una circolazione ottimale dei fluidi – a differenza di volumi di serbatoio a temperature inferiori che, essendo naturalmente fratturati, permettono l’estrazione del fluido in superficie.

 

Questo è quello che è stato osservato ad esempio a Larderello nell’ambito del progetto DESCRAMBLE. In questo caso il pozzo coinvolto ha fatto registrare temperature ben superiori ai 500˚C ma la produzione di fluido è risultata essere praticamente inesistente.

 

Per riuscire a sfruttare appieno questo tipo di risorsa sono quindi in fase di studio tecniche innovative, studiate attraverso progetti di ricerca e innovazione in diverse parti del mondo.